Leggiamo da Aulo Gellio, Notti Attiche (13, XVII, 1):
I creatori della buona lingua e quelli che ne hanno fatto il giusto uso non intesero la parola humanitas nel senso che volgarmente si ritiene, cioè l’equivalente del greco philanthropia che significa una generica inclinazione e benevolenza verso il genero umano. Humanitas è per loro qualcosa come la paideia dei greci, che noi diciamo educazione ed addestramento nelle arti liberali. Coloro che a queste arti sinceramente aspirano e le ricercano, costoro sono anche di gran lunga i più umani; infatti la passione e l’applicazione di tale scienza è privilegio dell’uomo solo tra tutti gli esseri viventi: e perciò fu chiamata humanitas.
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Va prima di tutto considerato che un genere umano non esiste veramente in quanto tale. Esistono tanti singoli individui, per la ragione che chi nasce e muore è il singolo; gli altri non fanno parte dell’evento, non li riguarda. L’inizio e la fine del singolo “a ben guardare” non è nulla di speciale, avviene continuamente, ed è avvenuto-avviene-avverrà in ogni caso.
Ricordo di essere stato colpito da una frase sentita a teatro più di mezzo secolo fa. La memoria che ne conservo è vaga e precisa allo stesso tempo. Erano gli anni ’60, al teatro Eliseo di Roma, un Brecht, che allora andava di moda, certamente la splendida attrice era Lina Volonghi. Poteva essere L’anima buona del Sezuan, o La resistibile ascesa di Arturo Ui, o più probabilmente Madre Coraggio e i suoi figli (li ho visti tutti). La frase che mi è rimasta impressa riguarda l’importanza che si dà alla morte di una persona nota e vicina rispetto a quella che provocano le molto più numerose morti di una guerra lontana o di una distruttiva inondazione in Cina. La ovvia e cinica risposta era che la morte individuale e personificata è di gran lunga più importante. Anche se rileggendo quello che ho di Brecht non ritrovo il passo del testo originale, il significato è chiaro, e condiviso, Brecht e la condizione umana, con buona pace della condizione umana come intesa da André Malraux che ha raccontato le stesse cose in modo molto più verboso e politicamente corretto. Ma non sarebbe ora di finirla con questa attenzione a una condizione che, per riceverne tanta, finisce con il considerarsi qualcosa di speciale? Certamente sì, piangersi addosso è uno dei nostri vizi principali.
Cosa vuol dire “a ben guardare”? Essenzialmente si riferisce alla autoreferenzialità dell’individuo, al suo far parte di un sistema ciclico più ampio di quello suo proprio e singolo, al non rendersene ben conto, alla granularità della sua esistenza all’interno di una popolazione eterogenea e che coinvolge tanti altri esseri viventi.
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Già che ci siamo, cosa intendiamo per “umano”? Nell’uso corrente la parola Umanità, l’equivalente dell’anglosassone human kind, consiste nell’indicare l’insieme degli esseri umani. L’altro significato, più specifico ed auto-referenziale, indica una qualità che ci auto-attribuiamo. Ed è questo il punto apparentemente positivo, in realtà il vero problema. Leggiamo da Aulo Gellio, Notti Attiche (13, XVII, 1):
I creatori della buon lingua e quelli che ne hanno fatto il giusto uso non intesero la parola humanitas nel senso che volgarmente si ritiene, cioè l’equivalente del greco philanthropia che significa una generica inclinazione e benevolenza verso il genero umano. Humanitas è per loro qualcosa come la paideia dei greci, che noi diciamo educazione ed addestramento nelle arti liberali. Coloro che a queste arti sinceramente aspirano e le ricercano, costoro sono anche di gran lunga i più umani; infatti la passione e l’applicazione di tale scienza è privilegio dell’uomo solo tra tutti gli esseri viventi: e perciò fu chiamata humanitas.
Ed è questo il punto. I gabbiani insegnano a volare ai loro pulcini, i leoni insegnano ai loro cuccioli come cacciare. Noi diamo, in perfetta buona fede, una educazione ai nostri figli, che insegni loro i nostri valori fondanti (democrazia, rispetto, gentilezza, laboriosità e amore per lo studio, gioia di vivere, e quant’altro di meglio e più corretto mai) ed il modo di metterli in atto. Il risultato è la società che vediamo intorno a noi, la distruzione del mondo. Esattamente perché, come dice Aulo: “la passione e l’applicazione di tale scienza è privilegio dell’uomo solo tra tutti gli esseri viventi”.
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Siamo poi l’unica specie che sa di dover morire. Ma è veramente vero? E allora l’istinto di conservazione che vediamo in atto in tutti gli animali, spesso indizio e rivelazione di strategie raffinatissime? Certo, forse la lepre fugge in modo automatico e incosciente quando sente arrivare il cane del cacciatore, ma è molto probabile che non sia proprio così. Il cuore gli batte forte comunque, e decidere se la lepre sia cosciente o meno del pericolo di finire appesa, dipende da cosa intendiamo per coscienza di sé. Non è molto verosimile pensare che la lepre non sia cosciente di sé quando fugge apparentemente all’impazzata, che non sappia di essere. Esattamente come noi.
Vantaggi e svantaggi
Certo molte altre specie, diverse dalla nostra, avrebbero vantaggio dalla nostra scomparsa; tante piante e tanti animali, grande vantaggio e subito. Chi non lo avrebbe sono le mucche e le galline degli allevamenti intensivi (che non nascerebbero più), i maiali che forniranno gli organi da trapianto (che non nascerebbero più), i salmoni in acqua-cultura (che non nascerebbero più), i barboncini da appartamento (che non nascerebbero più), le piante grasse dei terrazzini (che non nascerebbero più), le piante di mais OGM tutte uguali che stanno conquistando il mondo (che forse nascerebbero ancora). Ma il mondo ricomincerebbe a respirare e il ghiaccio a scricchiolare, le nuvole farebbero ripiovere dove e quando deve. Cioè come gli pare, senza che nessuno stia lì a criticare e a fare inutili previsioni.
Chi ne avrebbe vantaggio sono gli uccelli migratori, le pìttime e le sterne che ogni anno migrano dall’Alaska alla Nuova Zelanda e alle acque dell’Antartide e ritornano trasvolando tutto il possibile, sono le balene e i fenicotteri, sono tutti gli esseri viventi dell’Amazzonia, sono tutte le specie che ancora non sono state classificate e che spariranno senza aver avuto un nome e senza curarsene troppo, sono tutti gli esseri che su questo pianeta si sentono veramente a casa e non lo distruggono con il loro battito d’ali. La Luna in cielo continuerebbe a sorridere, senza darsi cura. Chi ne avrebbe vantaggio sono certamente gli altri sistemi nervosi capaci di percezione, quelli che si sono evoluti in modo parallelo al nostro. Per vivere ed interagire serve percezione, e questa ha come compenso il godimento del mondo.
L’origine del sistema nervoso è affascinante, ed è connessa alle vescicole che producono neurotrasmettitori, in genere neuro-peptidi. A partire dalle spugne, animali che non hanno un sistema nervoso, questo si è evoluto indipendentemente tre volte, a mostrare come la percezione attiva e la sua elaborazione conferiscono un forte vantaggio evolutivo.
Una prima volta, ed è quello più antico, il sistema nervoso si è sviluppato negli Ctenofori, animali marini che somigliano molto alle meduse e che hanno lungo il loro corpo lunghe file di protuberanze tentacolari che vanno dall’alto in basso come pettini. Per muoversi attivano queste file di tentacoli e, per coordinare il loro movimento di tipo semplice, hanno neuroni. I neuro-peptidi degli Ctenofori sono diversi da quelli dei molluschi e dei mammiferi, e fanno funzionare neuroni organizzati in forma di gabbia che racchiude il corpo, a volte fusi tra loro, sempre senza un sistema nervoso centralizzato. La semplicità è la loro forza, ed il loro modello è lì da più di 600 milioni di anni.
Il secondo tipo di sistema nervoso è quello che si è evoluto nei molluschi. Uomini e polpi sono separati da 500 milioni di anni, gli antenati comuni non avevano cellule nervose propriamente dette. Il loro sistema ed il nostro funzionano su basi biochimiche simili, ed i neurotrasmettitori (acetilcolina, dopamina, noradrenalina, serotonina, l-glutammato e GABA) sono gli stessi in loro ed in noi. L’evoluzione di questa biochimica sembra risalire a tempi molto anteriori a quelli della separazione uomini-polpi, ed i ricettori della famiglia nicotinica, si stima, risalgono a 2,5 miliardi di anni. Pur se in presenza di varianti specifiche, sembra che il substrato evolutivo del cervello dei cefalopodi e dei loro organi di senso sia lo stesso del nostro. Non sappiamo ancora se siamo in presenza di un fenomeno evolutivo parallelo o di convergenza evolutiva. Probabilmente, data la natura delle sostanze di partenza (glutammato, acetilcolina), tutte e due i fenomeni insieme. Fatto è che i polpi dormono, sognano, imparano e ricordano come e più di noi.
Noi però viviamo in società ed abbiamo cervelli che funzionano on-line tra loro; il che ci ha reso molto efficienti, giganti dai piedi di argilla. Come pensare che non siano on-line tra loro i cervelli delle formiche, che hanno tutte lo stesso genoma che si incarna in corpi resi diversi da regolazioni epigenetiche, o non siano allo stesso modo on-line i cervelli delle api che esprimono anch’esse ognuna differenti parti del genoma della regina e fanno cose stupendamente elaborate? Ma noi abbiamo fatto di più, e siamo andati al di là di meccanismi semplici ed equilibrati; il nostro cervello ha trovato il modo di codificare risultati ed esperienze, e trasmetterle ad altri ad una scala che non conosce limite e con meccanismi dei quali non ci rendiamo bene conto. Siamo troppo efficienti, e ad un certo punto siamo stati chiamati a pagare il costo di questa efficienza.
Mi permetto di fare qui un paio di esempi, entrambi tratti da Notti Attiche di Aulo Gellio, scritto intorno al 150 della nostra èra, su come lavorino di concerto i cervelli umani (anzi, meglio, le loro menti). Il primo esempio è dal Libro 2, capitolo XXI:
“ [1] Eravamo in diverse persone, greci e romani, studiosi delle medesime discipline, e sulla medesima nave facevamo la traversata da Egina al Pireo. [2] Era notte, il mare tranquillo, la stagione estiva e il cielo limpido e sereno. Sedevamo perciò a poppa tutti quanti insieme, a contemplare le stelle lucenti. [3] Ciò fu occasione, per quelli della compagnia che sapevano di scienza greca, d’intavolare dotte e profonde dispute su una quantità di problemi: su che cos’è il “Carro” e il suo “Bovaro”, qual è il maggiore e qual il minore, perché si chiama così, in che direzione si muove con l’avanzare della notte, perché Omero dice che solo il Carro non tramonta mai, e via dicendo.” Segue discussione sulla costellazione che i greci chiamano Carro e i romani chiamavano Settentrione, sulla ragione e origine dei due nomi. È ovviamente interessante, così come è bello andare a leggere che Omero in Odissea (5, 273 sgg) insegna che L’Orsa, che anche chiamano col nome di Carro, / e si gira sullo stesso punto e tiene d’occhio Orione, / lei sola esente dal bagno di Oceano. Ma è ancora più bello immaginare quel gruppo di intellettuali che si scambiano opinioni sul significato della parola triones (parte di setten-trione), sulla eleganza di disegnare triangoli nel cielo considerando tre a tre le stelle, su cosa ne avrebbe detto Varrone.
Quelle menti lavoravano in concerto ed elaboravano concetti astratti. Spostavano, obbedendo allo stimolo del loro piacere nella notte stellata che sapevano apprezzare, il confine della soluzione di problemi secondari quanto si voglia, ma pur sempre problemi riguardanti forme di espressione e di comunicazione tra individui della specie.
Il secondo esempio è dal libro 14, capitolo V, 1:
Stavo passeggiando, un giorno, nel campo di Agrippa per rilassare e ristorare la mente dopo le fatiche di uno studio prolungato. E lì mi venne di scorgere due grammatici, piuttosto famosi nella città di Roma, e di assistere a una loro veemente discussione: uno sosteneva che si deve dire al vocativo vir egregi, e l’altro vir egregie.
Segue la descrizione della colta ed articolata discussione, sostanzialmente interessante solo per chi la faceva. Il capitolo finisce con:
La loro disputa andava per le lunghe, e a parer mio non valeva proprio la pena star ancora a sentirli sullo stesso argomento. Li lasciai che ancora gridavano e bisticciavano.
Bellissimo esempio di come due cervelli si mettano on-line per verificare un dettaglio del proprio algoritmo di comunicazione, guidati dal gusto di farlo, che non è che un valore trigger di funzionamento aggiunto all’algoritmo di base, mascherato da quello che chiamiamo con il termine tutto umano di “professionalità”.
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Per capire meglio se stesso Homo sapiens si sta smontando e ricostruendo, in forma di robot e di Intelligenza Artificiale. La costruzione del corpo di un robot non presenta più alcun problema ed è deputata a stampanti 3D che possono ovviamente essere gestite da robot costruttori che attingono da cataloghi di parti preformate (sempre da stampanti 3D) e specializzate. Che il sistema possa essere controllato e programmato da un robot è importante, se vogliamo cercare di capire quale è il futuro-presente di questa storia. I robot possono avere attività sessuale di scambio di informazioni non necessariamente limitate a due partner, secondo il modello scelto dalla biologia. Lo scambio di DNA tra umani diventa nel caso di due robot condivisione di programmi e di sorgenti di energia; la scelta biologica basata su chimica e affascinazione è facilissima da tradurre in linguaggio e comportamento robotico. Lo scambio di informazioni può essere in questo sistema direzionato facilmente e dà luogo ad evoluzione, come è successo per noi animali. La differenza è la rapidità, alta, con la quale avviene il processo evolutivo dei robot ed i tempi, lunghi, con i quali è avvenuta la nostra.
La chiave della storia è il machine learning, sistema per il quale il computer non dipende più, per imparare, dal programmatore ma dipende da se stesso oppure da una altra macchina come lui, oppure da tutte le altre macchine come loro con le quali i cervelli dei robot si possono collegare a network. Un computer che deve trovare la strada migliore per risolvere un problema impara essenzialmente da se stesso attraverso reiterazioni e prova/errore. David Gunning, dell’US Defence Advanced Research Projects Agency DARPA, agenzia militare interessata al potenziale di riconoscimento da parte della AI, dice:” Usano, per far questo (cioè imparare da se stessi) una logica matematica bizzarra, a noi completamente aliena”.
Se i computer che induciamo a giocare a Poker contro se stessi hanno sviluppato un’altra matematica (“bizzarra”, per chi ci ha guardato bene dentro), vuol dire che i computer tuffati nel deep learning hanno imparato, come prima cosa, a dotarsi degli strumenti a loro più adatti. Significa anche che esistono matematiche diverse dalla nostra? Se la matematica è una funzione della mente, e se IA funziona con una matematica propria, si può dire che allora IA ha una mente? Forse è una questione semantica: quale è la differenza tra cervello e mente? La risposta semplice, e parzialmente insoddisfacente, è che il cervello è la struttura e la mente è il suo funzionamento. In questi termini, i robot hanno entrambi.
Quello che manca loro finora è la dimensione psicologica e la dimensione casuale, entrambe radicate nella dimensione tempo. Ma dato che il tempo come valore assoluto non esiste ma è una espressione del contesto fisico, il problema non interessa molto ad un robot impegnato a “fare”. Semmai questo interessa ai ricercatori del progetto ARE (Autonomous Robot Evolution) che sono occupati ad applicare alle loro macchine le regole della evoluzione Darwiniana.
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Se da questo mondo scompare il sistema nervoso di Homo sapiens, a godersi la Terra possono rimanere i sistemi nervosi degli ctenofori e dei polpi. E forse, secondo le loro regole bizzarre, quelli dei robot.
Come mettere fine alla specie umana
Certamente senza inutili crudeltà (altro vizio capitale della nostra specie): indicendo una settimana del digiuno, durante la quale finalmente non continueremo a ingerire i corpi dei nostri simili (altro vizio capitale della nostra specie), magari aiutati da qualche sostanza palliativa euforizzante. Il digiuno rituale è prescritto da tante religioni (altra invenzione viziosa della nostra specie) in ossequio alla partecipazione del corpo con la metafisica che (ancora un altro vizio della nostra specie) abbiamo inventato per rispondere a domande che era meglio non porsi. Così come non se le pongono organismi altrettanto intelligenti e ben più eleganti, balene, api, farfalle, formiche, ai quali e alle quali lascieremmo finalmente il mondo prima che sia troppo tardi anche per loro.
Ci spaventa forse il momento del passaggio? A mò di chiarimento, non certo di incoraggiamento, andrebbero ricordate le parole che del passaggio tra vita e morte sono state già dette.
Ne parla Aulo Gellio (Notti Attiche, 7, XIII, 5-11). Aulo era invitato a cena dal filosofo Tauro e alla fine del convito, invece del dessert “fu chiesto quando è che il morente muore: quando già è dentro la morte o quand’è ancora in vita? E uno che si alza quand’è che si alza: quando è già in piedi o quando ancora sta seduto? e chi impara un mestiere quand’è che diventa artigiano: quando già lo è o quando ancora non lo è? […] … e alcuni sostennero che la parola, e l’atto, del morire si applica, e avviene, quando ancora perdura la vita, altri non concessero niente alla vita in quel momento e tutto intero il termine “morire” lo rivendicarono alla morte. […] … Il nostro Platone, invece, questo momento non lo attribuì né alla vita né alla morte, e altrettanto fece discutendo i casi analoghi. [11] Egli si rese conto che l’una e l’altra ipotesi si contraddicono, che di due contrari non può realizzarsene uno in presenza dell’altro; che il problema sorge per la connessione di due zone in sé diverse, la morte e la vita, e dunque egli escogitò e definì un nuovo altro momento-limite, da lui chiamato, con frase appropriata e originale, “la natura istantanea”.
Il momento di passaggio tra vita e morte non dovrebbe quindi farci molta paura, metterci molto pensiero. E se andiamo a vedere cosa in effetti diceva Platone (Parmenide 156d) ce ne convinciamo facilmente:
C’è quindi quella strana cosa, nella quale è possibile che esso sia allorquando muta?
E sarebbe?
L’attimo. L’attimo in effetti par che significhi qualcosa di cosiffatto da essere come un punto di transizione tra due mutamenti inversi. Giacché il trapasso non ha luogo dalla immobilità tuttora immota, e nemmeno dal moto tuttora mosso; ma questa natura un po’ strana dell’attimo, che ci si presenta assisa nel mezzo tra il moto e la quiete, pur non essendo in alcun tempo, è precisamente il punto di arrivo e di partenza nel trapasso di ciò che si muove verso lo star fermo e di ciò che sta fermo verso il muoversi.
Rischia di essere così.
Orbene, l’uno, poiché e sta fermo e si muove, muterà in ciascuno dei due sensi – ché soltanto così può fare e l’una e l’altra cosa – e, se muta, muta nell’attimo, e mentre muta, non sarà in nessun tempo, anzi, in quell’istante non si muoverà neppure, come non starà neppur fermo.
No, di sicuro.
E non si verificherà lo stesso anche negli altri mutamenti? Quando l’uno dall’essere muti al perire o dal non essere al nascere, non si trova allora egli in mezzo tra certi movimenti e certi riposi, ed allora né è né non è, né nasce né perisce?
Parrebbe almeno.
Per la stessa ragione dunque l’uno anche nell’andare da uno a molti e da molti ad uno, non è né uno né molti, né si separa né si riunisce. E del pari nell’andare anche da simile a dissimile e da dissimile a simile non è né simile né dissimile, né assomigliantesi né dissomigliantesi; e nell’andare da piccolo a grande e ad eguale e viceversa, non sarà né piccolo né grande né eguale, né crescente né decrescente né eguagliantesi.
È verosimile.
A tutti questi casi dunque andrà soggetto l’uno, se è.
E come no?
Quindi, auspicando il suicidio di massa di tutto il genere umano e cercando di capire se c’è qualcosa che a questo processo collettivo possa creare ostacolo o rallentamento o perfino impedimento, il momento di passaggio non dovrebbe fare alcuna paura, così come non deve essere di impedimento il sentirsi, in quanto individui singoli, rappresentanti di molti, di una specie intera, unusquisque faber fortunae suae. Come dice Parmenide “l’uno anche nell’andare da uno a molti e da molti ad uno, non è né uno né molti”. Ovvero, Parmenide si pone questo nostro stesso problema, quello di sentirsi titolari di responsabilità altrui (altrimenti e più nobilmente detto: problema della molteplicità dell’essere) e, con le parole con le quali lo pone, al tempo stesso lo risolve: nel passaggio si perde identità, solo l’uno esiste. La nostra responsabilità è individuale. Non abbiamo il diritto di nasconderla delegandola ad altri. E di questo “uno” e della sua incontrollata voracità, del suo non-essere-in-armonia-con-il-tutto dovremo comunque fare a meno.
Possiamo allora riflettere più liberamente su cosa sia la responsabilità di essere, che nessuno aveva programmato di affidarci, ma che ci siamo ritrovati addosso.
Da dove veniamo
Tra tanti frammenti di crani, graffiti sulle pareti delle caverne e pietre scheggiate, quello che si è rivelato essere il testimone paleontologico di gran lunga più importante è il nostro genoma. Il nostro DNA, organizzato in cromosomi, è un fossile pieno di informazioni. Ora che abbiamo iniziato a capire come leggerlo, sappiamo che la storia della evoluzione che ha portato fino a noi è molto complessa, che non siamo la punta di un albero evolutivo e che, molto più verosimilmente, siamo un ramo laterale di un cespuglio fatto di quasi-specie, parzialmente interfeconde, favorito da una serie di eventi nei quali caso e necessità si sono mescolati a lungo.
Cercando di riassumere la visione consensuale della antropologia contemporanea, si può affermare che esistono indicazioni di un’evoluzione diffusa, priva di un vero centro e di un unico gruppo biologico di riferimento, tendente infine a fondersi in diversi tipi umani, in un processo di scambio genetico e culturale e di sviluppo dinamico di una mente faber e cogitans allo stesso tempo. Sui fatti specifici il dibattito è ora aperto, e l’attribuzione dei fossili di Omo I, di Omo II o di Florisbad all’Homo sapiens, o all’ Homo helbei o all’Homo nadeli è oggetto di ulteriori analisi. A questa complessità si aggiunge la serie di fossili che indicano l’esistenza di un Homo rhodiensis e di un Homo erectus. Home erectus, in particolare, sembra essere rimasto sulla scena più a lungo degli altri.
La probabilità maggiore, in questo quadro dinamico e ancora incompleto, è da riporre nella formazione di un clade chiamato Homo heidelbergensis, possibile punto di partenza per la nostra specie attuale. La sua presenza in forme identificabili è attestata in Africa e in Europa tra -700.000 e -300.000. Da questo deriveremmo noi sapiens, oltre ai Neanderthal e ai Denisoviani. Fossili di Neanderthal di -430.000 sono attestati a Sima de los Huesos nel nord della Spagna, riportando indietro nel tempo la separazione tra Neanderthal e Denisovani ad una specie comune, Homo antecessor ( Welker, F., [24 autori], Cappellini, E., The dental proteome of Homo antecessor Nature, 2020, 580, 235-238; e Marshall, M., Closing in on our ancestors. New Scientist 2020, 246, 16), i cui fossili, tutti di origine iberica, risalgono al – 900.000. Si ritiene che l’intermedio comune sia Homo heidelbergensis. Fondamentalmente l’immagine è composta da flussi variegati che alla fine si fondono in un unico flusso genetico. Il modello Out-of-Africa sarebbe solo uno degli episodi, anche se forse il più rilevante, di una serie di evoluzioni e migrazioni locali. Questa specifica espansione (importante perché l’ultima e di maggior successo) sarebbe solo di sapiens, avvenuta intorno a -100.000 a nord e ad est verso l’Europa, l’Asia centrale e poi la Cina; e in direzione sud-est per raggiungere il Sahul (Australia e Nuova Guinea) intorno a -65.000. Forse le ragioni dello sviluppo intellettuale dei sapiens contemporanei sono il frutto di alcune mutazioni.
La discontinuità segnata dalla migrazione di Homo sapiens Out-of-Africa è datata intorno al -60.000, probabilmente legata alla comparsa di mutazioni chiave nello sviluppo cerebrale. Mutazioni di questo tipo sono state identificate nel 2005 e riguardano geni che regolano il rapporto tra lo sviluppo del cervello umano e la sua capacità di adattamento: il gene della microcefalina e il gene ASPM, che determina le dimensioni del cervello.
Pensare che le ragioni dello sviluppo intellettuale siano solo nelle mutazioni del gene della microcefalina e del gene ASPM è però probabilmente troppo riduttivo. A questo proposito è molto interessante la scoperta fatta da un gruppo di genetisti dell’Università della California. Lo studio Bay R. A., [4 autori], Ruegg, K., Genomic signals of selection predict climate-driven population declines in a migratory bird. Science, 2018, 359, 83-86) identifica due geni, chiamati DRD4 e DEAF1, associati alla curiosità e al desiderio di andare.
Un parallelo rilevante: è stato dimostrato che nelle 21 popolazioni di Setophaga petechia (un tipo di fringuello giallo nordamericano) esaminate, gli individui che permangono in aree divenute inospitali a seguito di eventi climatici hanno un tipo definito di questi geni, mentre una loro variante caratterizza gli individui che se ne sono andati per primi. Quando il clima cambia e la terra diventa inospitale, è tempo di migrare e questi geni si attivano. Gli stessi geni sono presenti nei pesci, in molte altre specie di uccelli e negli esseri umani. Manca ancora un’analisi dettagliata della relazione tra la versione umana di questi geni e la voglia di viaggiare delle diverse popolazioni.
L’analisi del vero fossile vivente, il nostro genoma, indica che l’umanità contemporanea è costruita su uno schema del DNA sapiens in cui sono presenti tratti genetici di origine neanderthaliana e denisoviana, oltre a frammenti genomici di almeno due cladi di gruppi umani non ancora identificati. L’analisi genomica fornisce dati particolarmente interessanti perché: è fatta alla cieca, la macchina che sequenzia il DNA è il mezzo che produce i dati; si basa su un punto di partenza molto ampio (la popolazione umana esistente oggi); permette di inserire su uno schema noto (basato su big data, cioè le sequenze geniche di molti genomi umani dalle origini più diverse) qualsiasi nuova informazione proveniente da qualsiasi frammento fossile rinvenuto sul fondo di una grotta.
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Una delle informazioni più rilevanti che è emersa dalla lettura dei genomi è che il genoma di Homo sapiens è fatto per una parte rilevante di DNA di origine virale. Una quantità che varia tra il 5 ed il 10 % delle nostre sequenze è DNA prodotto ad un certo punto della nostra evoluzione da eventi di retrotrascrizione (ovvero: da RNA a DNA) di retrovirus, del tipo cioè dei virus che provocano Aids. Non solo: una ricerca ad opera di Aris Katzourakis e Josè Gabriel Niño Barreat dell’Università di Oxford (bioRxiv, doi.org/hg94) ha identificato nel genoma umano due tipi di sequenze di virus Maverick, una entrata nel genoma 106 milioni di anni fa, l’altra 2 milioni di anni dopo. Se questi eventi provocano l’entrata in DNA di cellule che daranno oociti o spermi, la sequenza virale entra nel ciclo dei genomi ospiti, e non ce ne liberiamo più. DNA di virus Maverick era nota nei genomi di rettili, di pesci e di anfibi. Ora sappiamo che è anche nei mammiferi, noi. Al giorno d’oggi non esistono virus Maverick attivi in quanto tali su e dentro di noi, ma lo sono stati in passato, ed il DNA ne conserva stabile traccia.
In conclusione: siamo fatti di un mosaico in continua evoluzione, veniamo da virus, da tanti tipi di scimmie mescolate e vaganti negli ambienti più diversi, ne riassumiamo la storia accumulata nel filo dei millenni. Ecco allora che diventa più chiara la estensione del ragionamento ai fatti seguenti.
Collasso
Tutto questo è stato già detto e meglio, molte volte. Aver letto di Jared Diamond Armi, acciaio e malattie (Collezione Saggi, Torino, Einaudi, 1998; Guns, Germs, and Steel: The Fates of Human Societies, 1997); e soprattutto Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere (Torino: Einaudi 2005; Collapse: How Societies Choose to Fail or Succeed, 2005) potenzialmente esaurisce l’argomento. Diamond considera piccoli sistemi chiusi: l’Isola di Pasqua, le colonie vichinghe in Groenlandia, l’isola dei rifugiati del Bounty. Fatto è che le regole che hanno portato al collasso quegli isolati gruppi umani si applicano al pianeta intero, sistema altrettanto chiuso di quello dell’Isola di Pasqua, dalla quale a un certo punto non era più possibile andar via.
L’isola di Pasqua esercita un fascino metaforico particolare. È nota a noi occidentali dal 1722, da quando la riscoprì Jakob Roggeveen, trovandola isola erbosa e quasi disabitata. L’Isola di Pasqua è uno dei tre vertici, quello a nord-est, del Triangolo i cui altri due vertici sono le Hawaii e la Nuova Zelanda. Per raggiungerlo con le loro canoe a doppio scafo indomiti viaggiatori avevano percorso migliaia di chilometri di mare, la costa dell’America distava solo altri 3.700 km. Nei loro viaggi portavano con sé piante per nutrire se stessi e colonizzare le terre dove sarebbero arrivati, e portavano dentro di sé i loro geni.
Non è particolarmente noto il fatto che sull’isola di Pasqua ci sono due mura megalitiche in stile inca-peruviano: la loro presenza è un problema aperto. Sono dovuti a contatti per i quali sembrano mancare testimonianze storiche dirette? Il muro di Ahu Tahiri è perfetto, quello del sito di Ahu Tepeu lo è un po’ meno. Una spiegazione plausibile della inaspettata presenza di queste strutture evolute al centro del Pacifico è che la colonizzazione dell’isola avvenne piuttosto tardi, quando in Oceania le costruzioni megalitiche presenti quasi ovunque sulle coste dell’Asia erano già entrate nell’immaginario collettivo, diffondendo il loro meme tra quelle popolazioni di navigatori instancabili. L’isola di Pasqua è stata recentemente colonizzata dai Polinesiani, come dimostrano prove genetiche, linguistiche e archeologiche. I primi arrivi sono del 900-1100 DC dalle primitive Isole Marchesi: le datazioni più recenti al C14 sembrano spostare l’arrivo al 1200, anche se potrebbero esistere materiali più antichi non organici, e quindi di difficile datazione. Una seconda ondata di immigrati polinesiani tecnicamente più avanzati si è verificata due secoli dopo. Il dibattito sui dettagli della sovrapposizione di queste due culture è ancora aperto. L’equilibrio ecologico forestale di un piccolo mondo chiuso e lontano da tutto non ha resistito a lungo al peso di 15-20.000 abitanti. Quando nel 1722 arrivò Jakob Roggeveen, l’isola era non aveva più alberi ed i pochi sopravvissuti vivevano una vita al limite della sussistenza. Per i Pasquensi, coraggiosi, intelligenti, motivati e organizzati al pari di noi, non c’è stata una isola B.
Reductio ad absurdum
Qualcuno potrà pensare che il ragionare su questi temi in termini della opportunità di un suicidio finale sia volutamente un modo paradossale per sottolineare e mettere a fuoco problemi veri ed importanti ma in qualche modo slegati tra loro. La “reductio ad absurdum” era un metodo della retorica in tempi classici; si introduceva nel discorso (spesso un dialogo o una discussione di più persone) il caso estremo opposto a quello che si sosteneva e che si voleva vincesse, considerandolo a priori valido e dandogli importanza. Molti esempi di questo modo di elaborare ed esporre sono nei Dialoghi di Platone. In parte è vero, il mio ragionamento è iniziato così, con un retro-pensiero in cerca di rassicurazione. L’ispirazione è dai vaghi ricordi di pamphlets di Jonathan Swift in questo spirito, tipo Una modesta proposta o i I viaggi di Gulliver. Oppure anche il Robinson Crusoe di Daniel Defoe, che alla fine torna a casa.
Ma se si comincia a riflettere sulla realtà che è davanti ai nostri occhi, magari cercando di esercitare un po’ di distacco, è chiaro che c’è da preoccuparsi. Solo facendo finta di non vedere possiamo non renderci conto che inquinamento sistematico, distruzione continua ed efficiente degli habitat, cancellazione di specie animali e vegetali e perdita dei loro preziosissimi genomi (quelli noti e quelli ancora ignoti), esaurimento delle materie prime, riscaldamento globale, incremento incontrollato del numero di individui di una sola specie, strana irrazionale accettata e ricorrente tendenza omicida su larga scala, studio dei meccanismi delle proprietà fisiche di ciò che ci circonda per rendere più efficienti guerre ed aggressioni, nevrosi da possesso di cose sostanzialmente inutili, diffusione senza controllo di predatori alloctoni, ingrassamento forzato delle oche per fare il foie gras sfruttando il loro istinto a migrare… solo facendo finta di non vedere che tutto questo abbia definito un sinergico percorso di suicidio di massa possiamo pensare che la base di questi ragionamenti sia una reductio ad absurdum. La cosa peggiore, se è possibile definire una scala di priorità in questa serie di scelleratezze, è la cancellazione di specie animali e vegetali e la perdita dei loro preziosissimi genomi, noti e ignoti.
Nevrosi da possesso di cose sostanzialmente inutili
Ne hanno parlato e scritto in tanti, si sono fatte rivoluzioni e guerre, tanto sangue è stato versato e tanto lo sarà ancora. Ma il possesso di cose e beni, e ancor più il possesso della loro astrazione, il denaro e tutto ciò che ne consegue, è la base strutturale delle società complesse. Non che io voglia qui annoiare nessuno elaborando sul tema della antropologia finanziaria e del proto-marxismo degli indios Bororo. Voglio solo dichiarare la mia fede aristotelica. In particolare nell’Aristotele di Politica, libro I.
A un certo punto dello sviluppo del modo di vedere la propria società e di considerare se stessi, gli Ateniesi hanno cominciato a distinguere tra ktēmata e chrēmata. I ktēmata sono le cose che si hanno a disposizione in senso lato, terreni e bestiame, oggetti e mezzi di produzione fino a schiavi e ad amici; i chrēmata sono le stesse cose di chi ha la capacità di servirsene al meglio, di usarle per ottenerne ricchezza in modo socialmente e filosoficamente accettabile. Di tutto questo parla diffusamente Senofonte in Economico, ed è probabile che questo sia il testo e questa la distinzione dalla quale è partito Aristotele che in Politica I, 9-10 scrive:
- C’è un’altra forma d’acquisizione che in modo particolare chiamano, ed è giusto chiamare, crematistica, a causa della quale sembra non esista limite alcuno di ricchezza e di proprietà. […].
Ogni oggetto di proprietà ha due usi: tutt’e due appartengono all’oggetto per sé, ma non allo stesso modo per sé: l’uno è proprio, l’altro non è proprio dell’oggetto: ad esempio la scarpa può usarsi come calzatura e come mezzo di scambio. Entrambi sono modi di usare la scarpa: così chi baratta un paio di scarpe con chi ne ha bisogno in cambio di denaro o di cibo, usa la scarpa in quanto scarpa, ma non secondo l’uso proprio, perché la scarpa non è fatta per lo scambio. Lo stesso vale per gli altri oggetti di proprietà. In realtà di tutto si può fare scambio: esso trae la prima origine da un fatto naturale, che cioè gli uomini hanno di alcune cose più del necessario, di altre meno (per cui è anche chiaro che il piccolo commercio non fa parte per natura della crematistica, che allora avrebbero dovuto fare lo scambio in rapporto a quanto ad essi bastava). […] … fare lo scambio secondo i bisogni, come ancora fanno molti dei popoli barbari, ricorrendo al baratto. Essi infatti scambiano oggetti utili contro oggetti utili ma non vanno al di là di questo, dando per esempio o prendendo vino contro grano, e così via per ogni altro genere di tali prodotti. Un siffatto scambio non è contro natura e neppure è una forma di crematistica (giacché tendeva a completare l’autosufficienza voluta da natura): da questa, però, è sorta logicamente quella. Perché quando l’aiuto cominciò a venire da terre più lontane, mediante l’importazione di ciò di cui avevano bisogno e l’esportazione di ciò che avevano in abbondanza, s’introdusse di necessità l’uso della moneta. Infatti non si può trasportare facilmente tutto ciò che serve alle necessità naturali e quindi per effettuare il baratto si misero d’accordo di dare e prendere tra loro qualcosa che, essendo di per sé utile, fosse facile a usarsi nei bisogni della vita, come il ferro, l’argento e altri metalli del genere, definito dapprima alla buona mediante grandezza e peso mentre più tardi ci impressero anche uno stampo per evitare di misurarlo – e lo stampo fu impresso come segno della quantità.
Dunque, una volta trovata la moneta in seguito alla necessità dello scambio, sorse l’altra forma di crematistica, il commercio al minuto, esercitato dapprima probabilmente in forma semplice, ma che in seguito, grazie all’esperienza, divenne sempre più organizzato, cercando ormai le fonti e il modo di ricavare i più grossi profitti mediante lo scambio. Per questo, quindi, pare che la crematistica abbia da fare principalmente col denaro e che la sua funzione sia di riuscire a scorgere donde tragga quattrini in grande quantità, perché essa produce ricchezza e quattrini. Se spesso si ritiene che la ricchezza consista nel possedere molti denari è proprio perché a questo tendono la crematistica e il commercio al minuto. Al contrario taluni ritengono la moneta un non senso, una semplice convenzione legale, senz’alcun fondamento in natura, perché, cambiato l’accordo tra quelli che se ne servono, non ha più valore alcuno e non è più utile per alcuna delle necessità della vita, e un uomo ricco di denari può spesso mancare del cibo necessario: certo, strana davvero sarebbe tale ricchezza, che, pur se posseduta in abbondanza, lascia morire di fame, come appunto il mito tramanda di quel famoso Mida, il quale, per il voto suggerito dalla sua insaziabilità, trasformava in oro tutto quanto gli si presentava. Per ciò cercano una ricchezza e una crematistica che sia qualcosa di diverso, ed è ricerca giusta: in realtà la crematistica e la ricchezza, naturale sono diverse perché l’una rientra nell’amministrazione della casa, l’altra nel commercio e produce ricchezza, ma non comunque, bensì mediante lo scambio di beni: ed è questa che, come sembra, ha da fare col denaro perché il denaro è principio e fine dello scambio. Ora, questa ricchezza, derivante da tale forma di crematistica, non ha limiti e, invero, come la medicina è senza limiti nel guarire, e le singole arti sono senza limiti nel produrre il loro fine, (perché è proprio questo che vogliono raggiungere soprattutto) mentre non sono senza limiti riguardo ai mezzi per raggiungerlo (perché il fine costituisce per tutte il limite), allo stesso modo questa forma di crematistica non ha limiti rispetto al fine e il fine è precisamente la ricchezza di tal genere e l’acquisto dei beni. Ma della crematistica che rientra nell’amministrazione della casa, si dà un limite giacché non è compito dell’amministrazione della casa quel genere di ricchezze. Sicché da questo punto di vista appare necessario che ci sia un limite a ogni ricchezza, mentre vediamo che nella realtà avviene il contrario: infatti tutti quelli che esercitano la crematistica accrescono illimitatamente il denaro. Il motivo di questo è la stretta affinità tra le due forme di crematistica: e infatti l’uso che esse fanno della stessa cosa le confonde l’una con l’altra. In entrambe si fa uso degli stessi beni, ma non allo stesso modo, che l’una tende a un altro fine, l’altra all’accrescimento. Di conseguenza taluni suppongono che proprio questa sia la funzione dell’amministrazione domestica e vivono continuamente nell’idea di dovere o mantenere o accrescere la loro sostanza in denaro all’infinito. Causa di questo stato mentale è che si preoccupano di vivere, ma non di vivere bene, e siccome i loro desideri si stendono all’infinito, pure all’infinito bramano mezzi per appagarli. Quanti poi tendono a vivere bene, cercano quel che contribuisce ai godimenti del corpo e poiché anche questo pare che dipenda dal possesso di proprietà, tutta la loro energia si spende nel procurarsi ricchezze, ed è per tale motivo che è sorta la seconda forma di crematistica. Ora, siccome per loro il godimento consiste nell’eccesso, essi cercano l’arte che produce quell’eccesso di godimento e se non riescono a procurarselo con la crematistica ci provano per altra via, sfruttando ciascuna facoltà in maniera non naturale. Così non s’addice al coraggio produrre ricchezze ma ispirare fiducia, e neppure s’addice all’arte dello stratego o del medico, che proprio della prima è procurare la vittoria, dell’altra la salute. Eppure essi fanno di tutte queste facoltà mezzi per procurarsi ricchezze, nella convinzione che sia questo il fine e che a questo fine deve convergere ogni cosa. Si è detto a proposito della crematistica non necessaria qual è e per quale motivo ne abbiamo bisogno, e a proposito di quella necessaria che è differente dall’altra, è parte dell’amministrazione della casa, è secondo natura, essa che bada ai mezzi di sostentamento, e non è, come l’altra, senza limiti, ma ha dei confini precisi.
- È chiarito quindi anche il dubbio mosso all’inizio, se cioè la crematistica appartiene all’amministratore della casa e all’uomo di stato o no, ma si devono invece presupporre i beni (perché come la scienza dello stato non produce gli uomini, ma, ricevutili da natura, se ne serve, così pure la natura deve dare, quali mezzi di sostentamento, la terra, il mare e qualche altra cosa) e, dopo ciò, è compito dell’amministratore disporre il tutto in maniera conveniente. […]
Ma è soprattutto la natura che, come s’è già detto, deve provvedere all’esistenza di tali beni: infatti è compito della natura fornire il nutrimento all’essere che nasce e, in realtà, ciascun essere trae il nutrimento dal residuo di materia da cui è nato. Perciò è secondo natura per tutti la crematistica che ha come oggetto i frutti della terra e gli animali. Essa, come dicemmo, ha due forme, l’attività commerciale e l’economia domestica: questa è necessaria e apprezzata, l’altra basata sullo scambio, giustamente riprovata (infatti non è secondo natura, ma praticata dagli uni a spese degli altri); perciò si ha pienissima ragione a detestare l’usura, per il fatto che in tal caso i guadagni provengono dal denaro stesso e non da ciò per cui il denaro è stato inventato. Perché fu introdotto in vista dello scambio, mentre l’interesse lo fa crescere sempre di più (e di qui ha pure tratto il nome: in realtà gli esseri generati sono simili ai genitori e l’interesse è moneta da moneta): sicché questa è tra le forme di guadagno la più contraria a natura … .
Aristotele distingue chiaramente tra forme di scambio conformi a natura (quelle connesse alla interazione di sostentamento, agricoltura, allevamento, pesca, raccolta) e pratiche di scambio contro natura. Nelle prime non è necessariamente implicato il denaro se non come mezzo pratico di scambio. Le pratiche contro natura sono quelle in cui il denaro è l’oggetto della pratica, il mezzo ed il fine al tempo stesso, il commercio senza scopo se non il guadagno, l’attività non legata in modo primario al bene di partenza. Cioè, in termini moderni, la finanza. Aristotele sta dalla parte degli aristocratici, prende una posizione “politica” (come dice il titolo dell’opera), non approva il guadagno generato dal commercio, è sostanzialmente un conservatore dei valori di una società antica e più semplice, parla di una società che era esattamente sul punto di varcare il limite che portava verso una terra incognita.
Ho tolto solo poche frasi dalla lunga trascrizione del testo dal sito del centrogramsci.it >classici>; ritengo che, pur essendo questo un testo che descrive cose ovvie e familiari in modo piano, Aristotele abbia identificato, attraverso i suoi effetti, uno dei nodi nei quali si manifesta la nostra irrefrenabile mancanza di senso del limite. È notevole che Aristotele parli di “stato mentale” e dica “il fine costituisce per tutte il limite”.
La specie umana, il collettivo di sostegno del re Mida, ha perso la distinzione, va contro natura.
Speravo
Speravo, come tanti altri benpensanti, di far affidamento sulla resilienza della specie umana, sul fatto che in molti abbiamo il senso della meraviglia della natura, della bellezza del passare del tempo. E poi, a nutrire il nostro ottimismo, ci sono ogni tanto buone notizie: quando diventano possibili i primi interventi di ingegneria genetica la Conferenza di Asilomar all’inizio degli anni ’70 indice una moratoria; nell’anno 2000 viene formalizzato il Principio di Precauzione; altri concepiscono finanziano e mettono in atto la Banca dei Semi nelle Isole Svalbard; altri ancora inventano la tecnologia del CRISPR. Ma poi prevale la convinzione che tra poco non ci sarà più nessuno a dirsi quanto siano stati inutilmente consolatori questi atti di buona volontà. CRISPR, cosa si nasconde dietro questa sigla complessa?
CRISPR, le nuove frontiere dell’ingegneria genetica
Gli organismi viventi sono fatti di un genotipo e di un fenotipo. Il genotipo è l’informazione sulla quale viene costruito il fenotipo, e questo è ciò che appare, quello che degli organismi vediamo e la cui funzione è ri-sintetizzare e trasmettere l’informazione e, esprimendone il contenuto, vivere. Il fenotipo è fatto di proteine, di membrane, di strutture metaboliche e di impalcature di vario tipo. Il genotipo è fatto di DNA.
Il DNA è un insieme di unità chimiche, i monomeri nucleotidici, la cui sequenza costituisce l’informazione. La complessità dell’informazione degli organismi varia: da poche migliaia di unità per i virus più semplici, ai pochi milioni dei genomi dei batteri, ai più di quattro miliardi del genoma umano, ai cento miliardi di unità per il genoma di alcune piante. Le metodologie di determinazione della sequenza dei componenti del DNA è stata sviluppata negli anni ’70 ed ’80, il sequenziamento del genoma umano è del 2000 (J.C. Venter, et al., The sequence of the human genome, Science, 2001, 291, 1304-1351). È naturale ed ovvio che, una volta letto il testo della nostra essenza, la prima cosa che sia venuta in mente è stata quella di interferire con questa sequenza chimica, di fare quello che si chiama “ingegneria genetica”.
Le tecnologie del DNA ricombinante permettono l’isolamento di tratti di DNA, la loro clonazione, la loro modificazione ed il loro reinserimento nel DNA del donatore o di un altro ospite. Si può così ottenere il cambiamento del patrimonio genetico della cellula ricevente, ora un OGM. Gli scopi dell’ingegneria genetica sono di interesse biotecnologico e terapeutico. Il dibattito sugli aspetti etici dell’intervento diretto sul patrimonio genetico è molto attivo e, sostanzialmente, non risolto. Un principio importante e generalmente accettato porta a considerare leciti gli interventi che modificano la linea somatica di un organismo, non quelli che ne modificano la linea germinale.
La terapia genica è la tecnica che, data una situazione patologica, vuole re-instaurare una situazione normale d’espressione genica. Si può fare in due modi: correggere, manipolandolo, il corredo genetico difettivo o re-instaurare il profilo quantitativo della sua corretta espressione. Si può intervenire su un gene per rimuoverlo, modificarlo, potenziarlo, esprimerlo in modo controllabile. Il termine clonaggio si riferisce all’amplificazione di DNA, mentre il termine clonazione indica la moltiplicazione di organismi interi. La combinazione delle tecniche di clonaggio e di clonazione comporta sviluppi di possibilità la cui portata è difficilmente prevedibile. La relativa imprecisione delle tecniche di reinserimento delle sequenze di DNA modificato nel nuovo ospite è stato finora un grosso ostacolo.
A quest’ultimo problema hanno posto rimedio le nuove tecniche dette CRISPR (Clustered Regularly Interspaced Short Palindromic Repeats, ovvero: brevi ripetizioni palindromiche raggruppate e separate a intervalli regolari). Queste sequenze, identificate nel 2010 (J.E. Garneau, et al., The CRISPR/Cas bacterial immune system cleaves bacteriophage and plasmid DNA, Nature, 2010, 468, 67-71.), hanno permesso la messa a punto di interventi genetici che, consistendo nella rimozione, o modifica, o aggiunta di un segmento di DNA all’interno di un cromosoma, richiedono assoluta precisione. Le tecniche iniziali facevano invece ricorso, con precisione limitata, alle proprietà delle sequenze in considerazione usando enzimi di restrizione e vettori virali. Il miglioramento offerto dalla tecnologia CRISPR consiste nella maggiore efficienza e precisione di riconoscimento delle sequenze bersaglio.
La tecnologia CRISPR si basa su fenomeni presenti in natura: nei procarioti esistono segmenti di DNA contenenti brevi sequenze ripetute, alle quali sono associati frammenti di DNA spaziatore, cioè di interpunzione tra i geni, generate dalla pregressa esposizione a virus o plasmidi. A queste sequenze sono associati geni, definiti nel loro insieme Cas (CRISPR-associated), che codificano un insieme di proteine in grado di tagliare in modo specifico il DNA. Introducendo nelle cellule bersaglio (in principio ed in pratica di qualsiasi tipo e di qualsiasi organismo) l’insieme di CRISPR/Cas e gli appropriati RNA guida (gRNA), il genoma ricevente può essere tagliato in modo preciso. Il problema d’identificazione del bersaglio genetico è risolto ricorrendo alla specificità d’interazione RNA/DNA, usando le informazioni acquisite attraverso la genomica. In sostanza, sintetizzando chimicamente un RNA guida, si può indirizzare il nuovo tratto genetico e modificare in modo programmato il vecchio carattere.
Sviluppi recenti della CRISPR perfezionano la precisione di localizzazione dei tratti di DNA che si vogliono inserire nel genoma da modificare. Sono stati messi a punto due metodi: il primo (A.V. Anzalone, et al. , Search-and-replace genome editing without double-strand breaks or donor DNA, Nature, 2019, 576, 149-157 ) è basato sulla tecnica di prime editing, un metodo di correzione del genoma che scrive direttamente la nuova informazione genetica in un sito specifico di DNA. Questo metodo può correggere fino all’89% delle varianti genetiche umane di interesse patologico. Il secondo è basato sull’uso di transposoni, ed è in grado di risolvere in modo definitivo il problema della precisione e dell’accuratezza d’intervento (K. Wang et al., Programmed chromosome fission and fusion enable precise large-scale genome rearrangement and assembly, Science, 2019, 365, 922-926), ma è di uso più limitato.
Il dibattito sugli aspetti etici degli interventi genetici resta aperto, ma le tecniche CRISPR permettono di affrontare il problema ad un livello nuovo, di altissima precisione, di agevole applicazione, di straordinarie possibilità di sviluppo. Ed è questo il punto sul quale varrebbe la pena riflettere, se possibile, con un po’ di distacco. Da un lato c’è la sacrosanta aspirazione a correggere direttamente difetti genetici e guarire patologie altrimenti elusive; diminuire anche in un solo individuo la sofferenza è ragione sufficiente a giustificare il tutto. Ci sono poi tanti corollari: vaccini, biotecnologie, banche dati, biotecnologie, conservazione di genomi, biotecnologie, biotecnologie. Dall’altro il rifiuto di accettare che non è così che funziona la natura del cui albero siamo foglie caduche.
Il bene dell’individuo non corrisponde a quello della specie. Quindi il nodo che sciogliamo continuamente è: individuo o specie?
Finora è stato scelto l’individuo. Ma quando finirà la specie finirà anche l’individuo. Tanto vale chiuderla qui con stoica dignità. Riconoscendo la grande saggezza del verso di Omero (Odissea, 4 392*): Ciò che t’è nato in casa, buono o cattivo che sia. Stavolta in questo ramo dell’evoluzione delle scimmie è andata così. Sciogliamo dunque, cari altri sapiens oltre a me, gli elementi di questa combinazione genetica che ha fatto tanti danni e rendiamoci disponibili ad altre combinazioni, sperando che siano più equilibrate.
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*Il verso Οττι τοι ἐν μεγάροισι κακόν τ’ ἀγαθόν τε τέτυκται è una variante dell’Odissea, riportata in un testo papiraceo del I-II secolo (in “Rotoli e Codici dell’Odissea. Nuova edizione di 4 papiri dell’istituto Papirologico “G. Vitelli”. PSI XIV 1381”). Di questo verso parla Aulo Gellio (N A, XIV, 6, 5) scrivendo “… quell’impareggiabile verso di Omero che Socrate diceva di tenere sempre nella mente sopra ogni cosa”. Ne riparla Gabriele Giannantoni in “test.” C 464. La mancanza di contesto illumina con luce Darwiniana, fredda, universale le parole che lo compongono.
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Ernesto Di Mauro, biologo. È stato professore di Biologia Molecolare presso l’Università Sapienza di Roma, Direttore Scientifico della Fondazione Pasteur-Cenci Bolognetti, Direttore del Centro di Studio per gli Acidi Nucleici (CNR, Roma). È ora Vicepresidente della Académie Européenne Interdisciplinaire des Sciences (Parigi). Ha sempre studiato i materiali genetici, le loro forme e strutture, la loro capacità di codificare segni e significati. L’eleganza ed il rigore della trasmissione dei messaggi genetici non possono essere separati dallo studio della loro origine.
Con Asterios ha pubblicato Pandora, amore mio, riflessioni sul valore esistenziale della ricerca scientifica (2015); De Rebus natura, una riflessione sulla conoscenza, sulla nostra posizione nel tempo e nell’universo, sul senso della vita (2015); Epigenetica, il DNA che impara. Istruzioni per l’uso del patrimonio genetico (prima edizione 2017); Essere. La scienza e gli spazi della filosofia (2018); Gaia Universalis. L’universo è un organismo vivente (2018); La Mente umana e la mente artificiale (2019); Il Golem che ci attende (2020); Sulla natura, Περὶ φύσεως (2020).
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