Indice: Premessa • 1. L’apocalisse religiosa • 2. L’apocalisse naturale • 3. Le apocalissi storiche • 4. La Conquista dell’America come apocalisse • 5. L’apocalisse storica diventa apocalisse religiosa • 6. Il mondo nuovo post-apocalittico.

Premessa.

Come è noto, il termine “apocalisse” è di origine greca e deriva da από (“via”) κάλυπτο (“ciò che è nascosto”), quindi αποκάλυψις significa “rivelazione”, “scoprimento”, “manifestazione”, “apparizione”.

Molte parole sono collegate all’apocalisse, se consideriamo l’origine indoeuropea della radice della parola[1]. Questa origine si fa risalire alla radice kal, da cui deriva il termine greco καλέω e il latino calare “chiamare”, “invitare”, ma anche κλέος “notizia”, “voce”, e i latini calendae e calendarium “chiamata del primo giorno del mese lunare”, “contare” e da cui proviene il verbo latino calculare e anche clamare “chiamare”, “gridare” e clamor “grido”, e il greco κλήσις è “chiamata”, da cui εκκλησία “assemblea”, ma soprattutto “chiesa” e il clarus “chiaro”, luminoso”, “illustre”, ma anche “suono della voce”, per cui declarare è “fare un suono con voce”. La radice kal si può ritrovare nel greco κελεύο “esortare”, “incitare”, κελλω “spingere”, “mettere in movimento”, κελης è il “cavallo da corso”, e celer è “celere” “rapido”. Dalla radice kal viene il termine greco καλός “bello”, κάλλος “bellezza”.

Dalla variante kra della radice kal deriva il greco κρύω “urtare”, “battere”, “suonare” e da kra viene anche il greco κρύπτωnascondere” quindi κρύπτος “nascosto” o “segreto”, κρυπτικός “criptico” o “che nasconde”, κρύπσις “nascondimento”, ma anche proviene il greco χρώζω “colorare”, “tingere”, χρώμα “colore, “pelle”, χρώς “carnagione” e anche color “colore” nel senso di “qualità aggiunta che copre l’oggetto”. Mentre dall’altra variante kla della radice kal, viene in greco κάλυκς e in latino calix “calice” e anche καλύπτω e celare “celare”, “nascondere”, ma anche il greco κλεπτω e clepere “rubare”.

Il sostantivo sanscrito kalayati è “contare” o “annunciare il tempo” e kāla è “tempo” e kalā è una parte della rotazione della sfera celeste, quindi viene indicato un movimento circolare e anche loro provengono dalla radice indoeuropea kal. Vedremo che molte di queste parole e significati saranno trattati in questo saggio, svolgeranno una loro funzione “apocalittica”.

1. L’apocalisse religiosa

L’apocalisse è un termine usato soprattutto in ambito religioso, più precisamente della religione cristiana, seppure i greci pagani non possedevano il concetto di apocalisse, né tanto meno di rivelazione. È molto probabile, quindi, che l’uso venga dal giudaismo di lingua greca, come nel caso dei Vangeli, siano essi canonici che apocrifi. L’apocalisse, la rivelazione, richiede innanzitutto un profeta προφήτης, parola composta dal prefisso προ “prima” e dal verbo φημι “parlare”. Quindi il profeta è colui che “parla prima” o “parla davanti a” o “parla al posto di”. Nel caso delle religioni monoteiste, il profeta è colui che parla al posto di Dio, caso tipico è quello di Maometto per l’islamismo. Il profeta, quindi, porta la parola di Dio per rivelare la verità di Dio; l’apocalisse è una forma di comunicazione rilevante, dove la verità è dichiarata, può essere ascoltata per mezzo della voce del profeta. Sarà di certo una verità fondamentale, che deciderà del futuro prossimo dei credenti, nel caso del cristianesimo di tutti gli uomini.

La Bibbia cristiana si chiude con il Libro dell’Apocalisse di Giovanni, chiamato anche Libro della Rivelazione di Gesù Cristo. Il termine apocalisse ha così acquisito un particolare valore religioso, da quel momento appariranno altre Apocalissi, ma non avranno un riconoscimento canonico, come l’Apocalisse di Giovanni, e sostanzialmente interesseranno il giudaismo e il cristianesimo, non l’islamismo. “Apocalisse” indicherà un genere letterario religioso. Quasi tutte le apocalissi sono collegate a personaggi che sognano o hanno visioni di determinati eventi e la narrazione di tali eventi rivela misteri. Misteri, estasi e sogni richiedono un’interpretazione, che, a sua volta, ha dato luogo a polemiche, a critiche, a veri e propri dibattiti circa il loro significato. L’istituzione ecclesiastica ha poi fissato la loro canonicità o meno. Entra in gioco anche la soggettività del narratore, che infatti dà qualche informazione autobiografica – cosa che non fanno mai gli evangelisti canonici –, dicendo che si trovava a Patmos, un’isola del mare Egeo, quando ascoltò una voce che lo invitava a scrivere in un libro quanto avrebbe visto durante una visione estatica.

La rivelazione di misteri richiede una elevazione spirituale, un uscire dalla propria soggettività per passare a una dimensione intersoggettiva, preludio alla dimensione dell’universale (καθολικός che è anche “generale” e “cattolico”): un parlare agli altri, una profezia. L’apocalisse è un’angoscia collettiva, se non è collettiva non è apocalisse. L’apocalisse può essere tale solo se vissuta da moltitudini e che colpisce i singoli. Essa non è totale, è universale, è multitudinaria. Uno sfugge all’apocalisse e rimane spettatore di essa, la contempla e la narra, è un perfetto Weltverseher, “osservatore del mondo” – che era la posizione che Kant voleva assumere nei confronti della realtà in cui viveva –, anzi è l’osservatore della fine del mondo. Questa stessa soggettività si rovescia in universalità nell’atto della narrazione, il narratore/osservatore diventa profeta, parla per tutta l’umanità, indicando il destino di essa. Nell’apocalisse, infatti, viene narrata la fine del mondo, del tempo e dello spazio. In questa narrazione della fine, viene rivelato il fine della creazione, cioè la teleologia intrinseca al mondo. Nell’evento della fine del mondo si rivela il destino del mondo. Infatti l’autore dell’Apocalisse biblica parla al presente, ma intravede un nuovo mondo, una Nuova Terra, una Nuova Era. Annuncia la Redenzione del mondo presente tra catastrofi e salvazione.

Dalla narrazione di un contenuto religioso, l’apocalisse è entrata nel linguaggio comune nell’uso metaforico di un avvenimento particolarmente tragico e sconvolgente l’ordine del mondo esistente sia in senso spaziale che temporale. Le culture e religioni antiche avevano una concezione ciclica del tempo, le età dell’oro, argento, bronzo e ferro si susseguivano. A questa concezione si univa sempre l’attesa di una redenzione, di un’uscita da una condizione di sofferenza, probabilmente dovuta al duro lavoro fisico, alla pena del lavoro. Le tre religioni monoteistiche condividono la convinzione che Adamo (uomo in ebraico) sia stato scacciato dal Paradiso e che debba/voglia tornare a questo di stato di felicità celeste, non terrena. Gli uomini mal sopportavano la condizione terrena, mondana. La redenzione avverrà con l’arrivo di un Messia, per gli ebrei, con la seconda venuta di Gesù Cristo, il Messia dei cristiani e dei musulmani, il Kaika Avatara per gli induisti, il Buddha o i Bodhisattwa (misericordiosi) per i buddisti, il Saoshyant (Redentore universale) per gli zoroastriani. Questa redenzione sarà preceduta da una apocalisse: per i presocratici e gli stoici era l’ἐκπύρωσις (conflagrazione), Seneca la chiamò concussio mundi (scuotimento, scossa, turbolenza, agitazione del mondo) e i germani ragnarökkor (l’“estate senza fiori” o il “mare senza vita”), gli atzechi ollin e gli inca pachakuti (“terremoto”). Gli indù aspettano mahāpralaya. Tutte queste concezioni prevedono un movimento ciclico del tempo e un rovesciamento dello spazio.

La fine del mondo è solo un momento della storia del mondo, esso rinascerà per dare origine a un mondo migliore, dove regneranno pace, frugalità, austerità, letizia della natura e degli uomini, un mondo semplice, abitato da uomini che vivono semplicemente. Questo rinnovamento è una restaurazione dell’ordine precedente del mondo, secondo la concezione stoica, ma è soprattutto redenzione dai peccati, secondo le concezioni monoteistiche, soprattutto nel cristianesimo e nell’islamismo. Nel cristianesimo l’Apocalisse è il momento supremo della redenzione dai peccati, e del ritorno a Dio. Sarà anche il momento del Giudizio Universale, quando i giusti riprenderanno il loro corpo e potranno ricongiungersi con Dio, dopo la sconfitta dei nemici della vita sulla Terra. Le tre religioni monoteistiche e il Buddismo hanno in comune la credenza che negli Ultimi Tempi, coloro che saranno in grado di restare ligi alle regole della religione saranno tra i redenti, addirittura il Vangelo di Matteo rovescia l’ordine del mondo: «Gli ultimi saranno i primi e i primi saranno gli ultimi» (Mt. 20,16).

Tutte le concezioni dell’Apocalisse, quindi, descrivono la fine dell’antico e la nascita del nuovo, la redenzione degli uomini giusti, che vivranno in un mondo migliore, un mondo utopico che supera l’apocalisse, che rimane dopo l’apocalisse, perché l’apocalisse è redenzione. Da questo punto di vista apocalisse e utopia redentrice sono strettamente connesse, ma l’utopia è un mezzo per l’apocalisse che è il fine, in quanto l’apocalisse ha due aspetti: svalutazione del mondo e accettazione dei valori trascendenti e ultraterreni[2]. La Chiesa cristiana usa l’utopia redentrice per preparare alla redenzione apocalittica, nella sua pratica svolge nel tempo l’Apocalisse di Giovanni. D’altronde la stessa Bibbia pare scritta come se dovesse terminare nell’apocalisse, nella redenzione, perché l’attesa nel tempo di un fine redentore da realizzarsi dà continuamente l’idea di un compimento prossimo venturo, come se la fine del mondo dovesse essere il fine dell’opera. L’Apocalisse è la fine della Storia e la Storia è storia della Salvezza. Il senso della redenzione, della παρουσία (“presenza”), della presenza imminente di Dio, spinse alcuni cristiani ad abbandonare le attività mondane per abbandonarsi all’attesa. È il caso della comunità di Tessalonica, che Paolo rimproverò nella sua Seconda Lettera ai Tessalonicesi, in cui ricorda la regola da lui stesso data: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane, lavorando in pace»[3]. Lavorare è accettare la condanna che Dio ha dato ad Adamo, per espiare il suo peccato di disobbedienza. Non lavorare per attendere la redenzione è un non accettare la condanna di Dio e la regola della vita quotidiana. Ma possiamo anche porci al posto dei neo-convertiti, che coinvolti emotivamente dalla nuova parola di Dio, sentono l’angoscia della scelta compiuta, e sperano nell’imminente liberazione da una vita difficile; come è noto il cristianesimo si diffuse dapprima tra le comunità degli esclusi e degli sfruttati. Il loro comportamento è tipico di chi vive una situazione catastrofica, apocalittica. Paolo richiama al rispetto dell’ordine del mondo, perché l’Apocalisse non è prossima e se la si credesse prossima, l’ordine del mondo andrebbe incontro a una catastrofe, ad un rovesciamento. Paolo non vuole rovesciare il mondo, lo vuole conquistare e dominare.

L’apocalisse è la parola di Dio, che parla ad un uomo, che diverrà il suo profeta perché parlerà al suo posto. Dio comparirà a questo uomo nel sogno e con una visione estatica, quindi al di là di ogni possibile azione razionale. La razionalità potrà intervenire solo post festum, cioè dopo che la parola di Dio è stata pronunciata, per interpretare sogni e visioni. In questi sogni e visioni è narrata la lotta tra Gesù e Satana, che viene scacciato due volte dal regno di Dio; la negazione di Dio e delle sue leggi è definitivamente negata. Dopo la scacciata definitiva di Satana, verrà edificata la Gerusalemme celeste, dove finalmente gli uomini potranno godere della prossimità di Dio e del trionfo del Bene sul Male. In fondo, però, nell’Apocalisse c’è una sacralizzazione della violenza. Il teologo Franz Hinkelammert è molto chiaro su questo punto: «L’azione, che si annuncia, è altamente violenta. Distruggere coloro che distruggono è una formula, che, secondo il mio sapere, appare qui per la prima volta nella storia umana come cammino di salvezza. Si tratta della sacralizzazione della violenza, corrispondente all’universalismo umano, che appare con il cristianesimo. […] Appare qui nell’Apocalisse e ispira le successive visioni della violenza, che già rivelano il grado di aggressività che questo nuovo universalismo può scatenare e che scatenò. […] È violenza che si sacralizza in nome del bene in conseguenza del quale questa violenza si esercita»[4]. Vedremo più avanti l’uso di questa violenza sacra nella storia della Chiesa cristiana. Qui possiamo solo osservare che c’è, quindi, nell’Apocalisse una concezione circolare, ciclica, del tempo, c’è una fine e un nuovo inizio, come era anche in altre concezioni antiche della temporalità. La fine del mondo attuale e l’inizio del nuovo mondo sono attese dai fedeli.

Per altro, il cristianesimo è entrato nella Storia sconvolgendo profondamente i tempi della Storia stessa, provocando una frattura del tempo irreversibile. La concezione cristiana della Storia ha un inizio che è la creazione e una fine che è l’Apocalisse. Ma è sconvolgente notare che i tempi verbali del libro dell’Apocalisse si muovono continuamente dal passato al presente e al futuro, come se la fine che verrà sia già venuta e ad essa si assiste come a uno spettacolo. Davanti a Dio il tempo perde i suoi “tempi” e diventa il presente assoluto, il presente senza tempo: l’inizio e la fine coincidono perfettamente. È la negazione radicale della Storia: il futuro è scritto nel passato e si realizza nel presente, si è totalmente fuori del tempo, il tempo si ferma indefinitamente.

Già nella cultura pagana o pre-cristiana l’apocalisse era stata integrata nella concezione del mondo. Gli stoici ritenevano che il tempo del mondo o della natura fosse ciclico e che a un periodo di ordine e organizzazione del mondo seguisse una ἐκπύρωσις, letteralmente “fuori del fuoco”, da intendersi come “una conflagrazione del fuoco”, che distrugge il mondo, il quale rinascerà nuovamente, in un secondo ciclo di ordine e organizzazione. In questo modo la fine del mondo è parte integrante della storia del mondo. Gli stoici probabilmente hanno ripreso concezioni induiste e taoiste. La distruzione è creazione, la negazione è negata, ma non c’è un rovesciamento reciproco degli opposti, perché la creazione non è distruzione, c’è solo la negazione della negazione. È un caso di dialettica unidirezionale. Nietzsche ha ripreso questa concezione nel suo concetto dell’“eterno ritorno dell’eguale”, rivelando una mentalità mistica, esatto contrario del suo presunto materialismo.

Tutte e tre le religioni monoteiste, le religioni del Libro, prevedono e attendono la fine del tempo. Per gli ebrei la venuta del Messia, per i cristiani la Seconda Venuta che realizzerà l’Apocalisse, per i musulmani la Seconda Egira, quando l’Islam si diffonderà per la Terra. Le tre religioni puntano alla Totalità: gli ebrei dominando gli altri popoli, cristiani e musulmani convertendoli. Anzi per le queste due la fine sarà quando tutti si saranno convertiti alla loro religione, cioè quando tutti gli uomini saranno fratelli in Cristo e tutti crederanno in Allah. I cristiani ancor più che i musulmani sono «eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essersi aspersi del suo sangue»[5]. Sono fratelli di Cristo nello Spirito e non nella carne, non carnalmente e non materialmente. La Storia è, allora, il processo di identificazione con Cristo, la sua durata è la diffusione di questa identificazione, che culmina nella visione estatica di Dio. La differenza rimane tra gli uomini, non nel loro Spirito. Solo nello Spirito singolo e universale diventano lo stesso.

La visione estatica di Dio pone un problema che viene avvertito dalla mentalità non religiosa e che Lukács descrive con precisione: «L’esistenza di Dio appare inseparabilmente legata all’esperienza estatica del soggetto che si eleva al di sopra della realtà creaturale, l’oggettività dell’esistenza di Dio diventa problematica anche da un punto di vista religioso. In ciò si esprime (anche se per lo più, ovviamente, in modo del tutto inconsapevole) una autocritica filosofica di tutto il modo di “porre” religioso; è, con segno invertito, quella stessa tendenza che da Senofane fino a Feuerbach ha sottoposto a critica radicale la religione, riconoscendo nei suoi oggetti altrettante proiezioni della vita umana create dall’uomo stesso»[6]. Naturalmente questa osservazione non convincerà i credenti, perché la loro fede, oltre ad essere testimonianza dell’esistenza di Dio, è un fatto trascendente ogni esistenza materiale e immanente della divinità. E la fede è, a sua volta, testimoniata dall’azione dell’uomo nel mondo. Per un credente l’azione buona, messa in atto, testimonia la sua fede nel Dio del bene. Ma per i non cristiani non c’è una fine della Storia, a meno che l’uomo non distrugga la vita sulla Terra o un asteroide colpisca il nostro pianeta. I non credenti non attendono, vivono in un tempo senza fine.

Ma io, non avendo i mezzi per interpretare l’Apocalisse in senso religioso, di qualsiasi religione, e ritenendo sostanzialmente a me estraneo tale argomento, rivolgo la mia attenzione all’apocalisse come metafora del risultato tragico dell’azione dell’uomo e, quindi, che ha soltanto nell’uomo il suo responsabile, anche se l’uomo possa aver agito in nome di un qualsiasi Dio e l’Apocalisse religiosa, qualsiasi apocalisse religiosa, può avere influenzato l’azione dell’uomo. Quindi la mia analisi non sarà rivolta alla trascendenza, ma al mondo immanente, al mondo degli uomini, al mondo della storia, alla dimensione temporale e spaziale dell’umanità. Si tenga conto che la Storia non è soltanto una dimensione temporale, ma anche spaziale, perché i fatti storici, gli eventi, avvengono in uno spazio, oltre che in un tempo, in un hic et nunc, che ovviamente una concezione trascendente non possiede. L’Apocalisse religiosa non ha tempo, è la fine del tempo, e non rispetta le regole della fisica spazio-temporale. Di questo io non so parlare. Parlerò di dimensioni concrete della realtà fisica. Saluto il mio lettore con credenza religiosa e continuo per la mia strada, augurandogli buon viaggio, percorrendo altri cammini che riempiano la sua anima di contenuti. Io non so dargli questi contenuti.

2. L’apocalisse naturale

Nella storia le apocalissi sono state molte. Direi troppe, perché non nascondo la mia posizione etica nello scrivere di filosofia. Lo storico rimane – se ci riesce – neutrale nella ricostruzione degli eventi storici. Il filosofo partecipa – almeno io concepisco la filosofia come partecipazione, prendere parte. Il filosofo non è oggettivo, così come il profeta. Ho scritto sopra che la narrazione dell’Apocalisse è soggettiva, ma diventa universale, saltando l’oggettività, quando parla profeticamente, cioè dà voce a Dio. Il filosofo non religioso scrive soltanto a suo titolo personale, sarà il lettore a trovare oggettività in quello che il filosofo ha scritto; soltanto passando dall’oggettività riconosciuta dal lettore, che il discorso filosofico diventa universale e vero. La verità del filosofo non si fonda su nessuna autorità, se non quella più autentica, cioè sull’auctoritas che viene dall’auctor, l’autorità dell’autore. Il filosofo è un autore, allora toccherà al lettore riconoscere l’autorità dell’autore, cioè la verità di quanto scritto dal filosofo. Ho voluto usare il termine “scrivere” e non “parlare”, come fanno i testi religiosi, perché la retorica ha un ruolo importante nell’espressione orale – tono della voce, oralità del testo come la preghiera, ecc. – che il testo scritto non possiede. Poi la tradizione filosofica occidentale è scritta più che parlata, con la sola eccezione di Socrate, che però ha trovato diffusione solo perché la sua filosofia è stata trascritta.

Torniamo alle apocalissi storiche, seppure vedremo che le apocalissi storiche si sono incrociate spesso con le apocalissi religiose, forse le hanno usate da modello. L’apocalisse storica è frutto dell’azione dell’uomo, sotto forma di guerra o conquista, o della natura, sotto forma di terremoto, alluvione o epidemia, e ha il carattere di catastrofe, termine italiano che deriva dal greco καταστροφή, che significa “rivolgimento”, “rovesciamento”, e fin qui catastrofe si può intendere come un fenomeno fisico, geologico; ma καταστροφή significa anche “soggiogamento”, “sottomissione”, “conquista”, quindi si può usare anche per situazione determinate da azioni umane. Tucidide usa la frase επ’αλλον καταστροφή φἧ εξιέναι (Tucidide, I,15) nel significato di “fare spedizione per sottomettere altri”. I significati di καταστροφή continuano: “fine”, “termine”, “esito”, ma anche “fine della vita”, “morte”. In un dramma è la “soluzione”, cioè l’epilogo del dramma. Καταστριφικώς è “scioglimento” oltre che “catastrofico”. Il prefisso κατα indica un movimento dall’alto al basso, un movimento di caduta. Il verbo da cui deriva καταστροφή è καταστρέφω che ha tutti i significati di καταστροφή, cioè “sottomettere”, “conquistare”, soggiogare”, “rovesciare”, “capovolgere”, “rivoltare”, ma aggiunge anche: “distruggere”, “abbattere”, “rovinare”, “sconvolgere”, “saccheggiare”, “assoggettare”. Insomma un verbo che nelle apocalissi storiche è quanto mai presente.

La sua radice indoeuropea è trh che indica “muovere da un punto all’altro [tr] deviando [h]”, e quindi “voltare”, “deviare”, “rovesciare”, significati che si trovano nel verbo greco στρέφω[7]. Un sostantivo che deriva da στρέφω è στροφή “rivolgimento, “giro”, “strofa”.

La catastrofe è un rivolgimento, uno sconvolgimento, un disastro collocato temporalmente e spazialmente. Una delle catastrofi più temute è l’epidemia che sembra simile a una guerra, ma in realtà non lo è, o meglio storicamente non lo era. Un disastro naturale, come un’alluvione o un terremoto, è limitato nel tempo e porta conseguenze disastrose, ma poi, solitamente, una comunità riesce col tempo a superare queste disastrose conseguenze. Una guerra, invece, può durare molto tempo, ma è sostanzialmente prevedibile, a meno che non abbia il carattere di improvvisa invasione, ma di questo parleremo molto ampiamente più avanti. La migliore catastrofe è l’epidemia perché colpisce i singoli, può colpire tutti singoli, in realtà colpisce molti singoli, ha le caratteristiche dell’apocalisse. Nella Bibbia, come è noto, è ricordata un’epidemia nel libro dell’Esodo, una delle dieci piaghe che colpì gli egiziani, quella delle ulcere, ma narrazione è breve e priva di dettagli significativi. Inoltre sulla veridicità storica di tale epidemia possiamo sollevare parecchi dubbi.

Altra narrazione, più dettagliata e soprattutto drammatica, è quella della Peste di Atene che ci riporta Tucidide ne La Guerra del Peloponneso (II, 54). La narrazione di Tucidide ci permette di non dubitare sulla veridicità storica dell’epidemia, semmai si dubita su quale morbo si sia diffuso ad Atene, ma i dettagli, narrati da Tucidide, sono realistici al punto da potere essere confrontati con quanto vissuto molto recentemente in quasi tutto il mondo con l’epidemia di Covid-19. Per questo motivo ho scelto di ricordare quest’unica catastrofe epidemica. Ciò che mi interessa rilevare della narrazione di Tucidide è il quasi completo sbriciolamento dell’ordine sociale e politico: «L’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita cittadina»[8]. La morte o il pericolo di morte «scatenarono dilagando impulsi prima lungamente repressi»[9], soprattutto la brama di ricchezza, realizzatasi con appropriazioni di ricchezze altrui. Temendo la morte, questi arricchiti – forse anche i ricchi precedenti all’epidemia – «considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, bramavano godimenti e piaceri che s’esaurissero in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete. Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna»[10]. Emerge con chiarezza che vita e denaro sono accomunati nell’essere valori transitori; Tucidide, forse al di là delle sue stesse intenzioni etiche, ci mette di fronte a un fatto essenziale dell’etica umana: la vita è il fondamento di ogni valore, anche del valore economico. Se la vita è in pericolo, se si è prossimi alla fine, allora tutti i valori perdono la loro vigenza e il denaro è riconosciuto per ciò che in effetti è: il portatore del valore di scambio. Così l’essere umano, prossimo alla morte, è disposto a cedere il denaro per il piacere immediato. Il piacere sostituisce il denaro nell’essere un valore: «L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili»[11]. C’è una lezione di economia politica nelle parole di Tucidide: se la vita è stabilmente assicurata, allora il denaro ha valore. È una concezione materialista del mondo. Anche un vecchio, prossimo alla morte, intende lasciare il suo denaro e/o i suoi averi ai suoi eredi, per garantirsi un ricordo duraturo della sua esistenza, e a questo punto conta sulla stabilità della vita dei suoi eredi, ma se anche costoro non possono contare su una vita stabile, allora il denaro perde tutto il suo valore. Se il futuro non è certo, allora il valore economico non sussiste e con la sua dissoluzione, si rovesciano i valori morali: onesto e utile diventa il piacere immediato.

Tucidide indica che una situazione di eccezione c’è un arretramento allo stato di natura e, quindi, il valore di scambio sparisce e prevale unicamente il valore d’uso. Sparisce totalmente la produzione per un altro, sparisce la stessa produzione: «Nessuno si sentiva trasportare dallo zelo di impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna»[12]. Le energie non si impegnano nella riproduzione della ricchezza, ma nel piacere che altrimenti si sarebbe dilazionato o mai tentato di avere. Se non c’è prospettiva di permanenza vitale crolla la produzione economica e con essa anche la religiosità e ogni forma di fede: «Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano»[13]. Con il crollo della religione, crolla anche lo Stato e la legge. Le leggi della città non sono più rispettate, la forza dello Stato non è più temibile della violenza della malattia. Addirittura i nemici, gli Spartani, temendo più la malattia che il nemico, si allontanano da Atene, quindi la guerra è considerata un male inferiore alla malattia.

La descrizione di Tucidide è più cruda e drammatica di quanto abbiamo vissuto, ma d’altronde noi abbiamo mezzi medici e tecnici di gran lunga superiori a quelli degli ateniesi di 2.400 anni fa. Ma le reazioni psicologiche sono analoghe, anche se in misura minore, a quelle vissute anche adesso. L’incertezza del presente si proietta sul futuro oggi e ieri. La struttura economica della società civile è messa fortemente in crisi e la struttura politica e giuridica della società politica scricchiola, mostrando la sua dipendenza dalla struttura economica. Abbiamo vissuto un’esperienza eccezionale che ci ha mostrato contraddittoriamente la forza tecnologica e scientifica della nostra civiltà capitalistica, ma anche l’intrinseca debolezza della sua struttura economica, che potrebbe rendere vana la potenza tecnologica della civiltà capitalistica.

La storia, oltre a questa epidemia famosa grazie alla narrazione di Tucidide, riporta di altre epidemie catastrofiche. Ricordo quella del 1346-1348 che diminuì la popolazione europea di decine di milioni di esseri umani. In alcune zone dell’Italia o della Francia i morti furono pari al 75% della popolazione locale. Un’altra epidemia famosa è la cosiddetta “Influenza spagnola” che si sommò all’ultimo periodo della Grande Guerra e che causò milioni di morti. Più recentemente la cosiddetta “Influenza asiatica” mietette i suoi milioni di morti.

Un’altra forma di apocalisse naturale sono i terremoti. Il fenomeno è solitamente rapido, pochi minuti, ma estremamente catastrofico, anche se lo sciame sismico che precede o segue ad una scossa disastrosa può durare mesi o anni. Non si può, però, parlare di convivenza con il fenomeno, come nel caso di una epidemia, si subiscono le conseguenze e si vive lungamente con esse. Il numero delle perdite umane è paragonabile a quelle di un’epidemia non gigantesca, ma può essere nell’ordine delle centinaia di migliaia – ad Haiti nel 2010 ci furono 316.000 morti e a Sumatra nel 2004 230.000 per citare il primo e il terzo della storia per numero di vittime e più recenti.

Un terremoto che ebbe considerevoli conseguenze sulla storia della filosofia è quello del 1 novembre 1755 a Lisbona. La città cristianissima fu gravemente colpita da una scossa di particolare violenza (si calcola di 8,5 gradi della scala Richter) che causò la morte di circa il 25% della popolazione cittadina, cioè 75.000 morti). La coscienza dell’epoca su colpita dalla distruzione delle moltissime chiese della città. I cattolici spiegarono il fenomeno come una punizione divina contro la politica anti-gesuitica del governo portoghese; mentre gli anti-cattolici sostennero che era una punizione divina per la politica di forzata e violenta evangelizzazione in Brasile. Chi cercò una soluzione non religiosa, ma scientifica, al fenomeno fu Kant, che ipotizzò l’esistenza di grandi vuoti nell’interno della Terra, che causavano crolli, che, a loro volta, si ripercuotevano in superficie. La teoria di Kant si rivelò inesatta, ma almeno il filosofo tedesco comprese che all’origine delle scosse ci dovesse essere un movimento della Terra. Come è noto Voltaire, approfittò del terremoto per ridicolizzare la teoria di Leibniz, secondo la quale Dio avrebbe creato per l’umanità il migliore dei mondi possibili. I filosofi dell’Illuminismo diedero una spiegazione naturale, fisica, al terremoto di Lisbona; l’apocalisse naturale fu separata da quella religiosa.

Altro fenomeno naturale catastrofico sono le inondazioni, che possono interessare aree più vaste di quelle colpite da un terremoto, ma il numero delle vittime non raggiunge le centinaia di migliaia, se non nelle uniche due eccezioni dell’inondazione del Fiume Giallo, in Cina nel 1931, che causò milioni di morti, e della provincia di Henan in Cina, che causò 200.000 morti.

3. Le apocalissi storiche

Altro aspetto hanno le apocalissi storiche, in quanto causate dall’uomo, dove, quindi, l’uomo è soggetto agente dell’apocalisse e oggetto, cioè vittima dell’apocalisse. L’aspetto di vittima è nuovo nella nostra analisi. Non ci sono vittime nell’apocalisse religiosa, sia stoica, perché è un momento del ciclo dell’universo, sia in quella cristiana, a meno che vittima non si voglia considerare Satana e il suo popolo di diavoli. Naturalmente ci sono vittime nelle apocalissi naturali, ma sono vittime casuali, hanno avuto la sfortuna di essere nel posto sbagliato nel momento sbagliato. È vero che Rousseau cercò di colpevolizzare le vittime del terremoto di Lisbona, addebitando l’alto numero di morti alle pessime condizioni edilizie delle case della capitale portoghese, ma la sua giustificazione, seppure valida razionalmente, non diminuì il compatimento emotivo verso quelle vittime, perché, appunto, vittime casuali. Lo stesso accade nelle contemporanee vittime di apocalissi naturali, anche se spesso si cercano eventuali responsabili di danni o morti. Ma si tratta di co-responsabilità di un evento naturale senza responsabili. Infatti quando Kant o Rousseau rifletterono sul terremoto di Lisbona esclusero una responsabilità divina nel tragico evento.

Nelle apocalissi storiche o umane la responsabilità è dell’uomo, ma in apparente contraddizione spesso le vittime non suscitano compatimento emotivo, anzi spesso ci si dimentica delle vittime, ci si deve dimenticare di esse. La storia è piena di apocalissi, anzi si potrebbe pensare che la Storia è storia di apocalissi. Quasi tutte le civiltà antiche sono scomparse a cause di apocalissi, molto spesso di apocalissi umane, cioè sono state cancellate da conquiste umane, da parte di altri popoli. Si pensi alla conquista romana di Cartagine. La città che era riuscita a mettere in serio pericolo l’esistenza di Roma, quando fu conquistata fu rasa al suolo, incendiata, la sua popolazione fu trucidata o schiavizzata. Non sono rimaste vittime che potessero ricordare e narrare la loro civiltà.

Si pensi, anche, alla Caduta dell’Impero Romano, che nell’arco di un secolo vide flettersi la popolazione dell’Italia da 10 milioni a 5 milioni e quella di Roma da un milione a 20.000 abitanti. Non si tratta di semplici numeri, ma di vittime, di morti che non riproducevano più la vita umana. Abbiamo qualche cronaca di questa apocalisse, ma in generale si è storicamente data poca importanza a queste testimonianze, perché queste vittime o erano pagani, o sono state considerate un prezzo da pagare per permettere alla Chiesa cristiana di assumere il potere politico sulla società civile europea occidentale. C’è stata un’operazione ideologica di occultamento di questa apocalisse, anzi la Chiesa si è assunta il merito di avere salvato la cultura occidentale, mentre in realtà aveva costantemente indebolito il potere imperiale in Occidente, preparando le condizioni della sua caduta. Questa interpretazione è rafforzata dal confronto con la Chiesa d’Oriente, che fu uno dei pilastri del potere imperiale e che permise la sua continuità, fino a quando non comparve un nemico religioso, i Turchi ottomani, anche questa una forma di apocalisse. Ma fu una parziale apocalisse, perché il sultano Mehemet II fermò il saccheggio della città, per evitare che fosse rasa al suolo. Addirittura alcune chiese rimasero cristiane e, quindi, il culto del nemico vinto continuò, tollerato dai Turchi conquistatori. Per gli Europei occidentali fu tale l’impatto della conquista di Costantinopoli, che vollero datare l’inizio della Modernità dalla sua caduta.

4. La Conquista dell’America come apocalisse

In realtà, cioè senza finzioni ideologiche, la Modernità inizia con la Scoperta dell’America, che è il prologo della Conquista dell’America. Ci sono varie teorie che sostengono che Colombo conoscesse già l’America prima di arrivarvi il 12 ottobre 1492[14]. Se ciò fosse vero, allora, si può presumere che Colombo avesse avuto un’idea delle dimensioni del continente e della sua ricchezza.

La Conquista dell’America è stata un’apocalisse di un genere molto particolare, perché non è stata una fine, o almeno in Europa – il continente che scrive la Storia – non fu considerata una fine, ma l’inizio, l’inizio proprio della Modernità. Quindi l’Apocalisse della Conquista è strutturale alla storia della Modernità, come sostiene Enrique Dussel: «La nostra ipotesi […] è che l’America Latina, a partire dal 1492, è un momento costitutivo della Modernità e Spagna e Portogallo come suo momento costitutivo»[15]

In realtà la Conquista dell’America è stata la fine di un mondo, una fine totale, oltre che catastrofica, che non si può comparare con la fine dell’Impero Romano, perché di quello fu conservata, ed è ancora conservata, almeno la lingua e la cultura, perché il distruttore di quel mondo si presentò come il suo successore che aveva l’intenzione di continuarne sotto forme diverse la storia; mentre delle popolazioni amerindie sono state cancellate metodicamente non solo le lingue, ma anche tutto il patrimonio culturale. Se qualche traccia delle lingue pre-conquista ancora esiste, è stato per merito dell’ostinazione delle popolazioni locali, per la loro dislocazione ambientale, per il recupero, del loro patrimonio culturale, ancora esistente, secoli dopo la conquista. La Conquista dell’America è l’apocalisse meglio riuscita, con conseguenze devastanti ancora presenti nel nostro mondo.

Per l’Europa la Conquista dell’America è stato un colpo di fortuna inatteso. Si pensi che nel 1492 l’Europa cattolica era assediata e sotto il pericolo di fare la fine della cristianità orientale greco-ortodossa. Nel 1492 i Turchi erano già fortemente stabilizzati nei Balcani e minacciavano il centro geografico d’Europa, cioè l’Impero Asburgico. Furono fermati nel 1529 sotto le mura di Vienna, ma la Conquista dell’America era iniziata già da più di 30 anni, sfruttata da Carlo V, l’imperatore asburgico che salvò Vienna dai Turchi, che approfittava delle enormi ricchezze che provenivano dall’incipiente conquista per finanziare la guerra di resistenza contro i Turchi.

Si tenga conto di un altro fattore decisivo: tutte le nazioni che, dopo la Conquista dell’America, divennero imperi, erano già imperi in Europa, con una sola esclusione, il Portogallo. La Spagna dominava non soltanto altre nazioni entro gli stessi confini della penisola iberica, ma anche l’Italia meridionale prima del 1492. La Francia era un dominio dell’Ile de France sul resto della nazione e da questo stato di fatto tentò la conquista dell’Italia. L’Inghilterra dominava Galles e Irlanda e poi anche la Scozia. La mentalità imperiale europea nacque prima della Conquista dell’America, anzi questa mentalità guidò la conquista.

La Conquista dell’America fu l’apocalisse per i popoli indigeni, a causa delle malattie e dei massacri compiuti dai conquistadores. Ma prima di passare ad analizzare le modalità di questa apocalisse e le sue conseguenze, va spiegata l’origine di tanta ferocia da parte dei conquistadores, che erano pur sempre cristiani. Appunto il carattere religioso della conquista fu all’origine del massacro degli indigeni. Questo carattere religioso fu ereditato dalle Crociate, guerre di conquista nei confronti di popolazioni molto più ricche di quelle europee, e poi dalla Reconquista, cioè da quel lunghissimo processo di lotte per il controllo della penisola spagnola combattute da cristiani e musulmani, che durò per otto secoli. La Reconquista assunse il carattere di una crociata, fortemente caratterizzata dall’odio verso i musulmani, considerati come creature del diavolo. In realtà fu una lotta contro una civiltà nettamente superiore alla cristiana, quale quella arabo-musulmana spagnola. I cristiani, quindi, demonizzarono i musulmani e questa immagine demonizzata la portarono con sé nella Conquista dell’America nei confronti degli indigeni. Si tenga conto che gli spagnoli riconquistarono Granada il 2 gennaio 1492, cioè soltanto dieci mesi prima dell’arrivo di Colombo a San Salvador, in pratica tra Reconquista e Conquista dell’America non c’è una soluzione di continuità cronologica. La demonizzazione degli indigeni era un aspetto ideologico necessario per condurre la loro annichilazione: essi divennero la negazione della cristianità che andava negata. Intellettuali europei, soprattutto membri del clero, o rimasero del tutto ignoranti dei costumi e delle tradizioni degli indigeni, o peggio ancora occultarono di proposito queste tradizioni per giustificare i massacri degli indigeni. Ad esempio si esaltarono i sacrifici umani degli aztechi, ma non si fece parola dell’ordinamento sociale degli Inca, in cui tutti i sudditi avevano diritto alla vita e alla riproduzione della vita. Il carattere più tipico dell’Apocalisse è di essere la negazione della negazione.

La Reconquista, continuata nella Conquista dell’America, fornisce la copertura ideologica di un vero e proprio Olocausto, il maggiore per dimensioni della storia, cioè una lotta contro le forze del diavolo, ma il fattore indispensabile per spiegarlo è la condizione di partenza dei conquistadores. Essi erano ideologicamente cristiani, e non potevano non esserlo, ma soprattutto erano poveri, come la stragrande maggioranza degli europei dell’epoca. L’Europa è una zona particolarmente povera della Terra, ad ovvia esclusione delle zone assolutamente non coltivabili come i deserti o le alte catene montuose. Gli storici definiscono l’agricoltura europea come una aridocultura, cioè l’agricoltura di terre sostanzialmente aride. La Spagna è una delle zone più aride del Mediterraneo, proprio la grande distanza dal mare rende il centro della Spagna, la Meseta, particolarmente arida. In realtà, quindi, è la povertà che spinge gli europei a tentare la sorte attraversando su piccoli gusci di legno, le caravelle – le cui dimensioni erano 20-30 metri di lunghezza e 7-8 di larghezza, con 50 tonnellate di dislocamento – un oceano immenso come l’Atlantico. Gli indigeni americani vivevano in un ambiente troppo ricco e fertile per avere la necessità di attraversare l’oceano in senso inverso. Vanno, quindi, rovesciate le nostre concezioni, secondo le quali gli europei erano più ricchi e civili degli indigeni, è vero piuttosto il contrario: la ricchezza dell’Europa è una conseguenza della Conquista dell’America e non la sua causa.

Si immagini il contrasto visibile tra i mezzi vitali dei conquistadores e degli indigeni: i primi vestiti di lana e ferro (armature), cioè vestiti per un clima freddo e per la guerra, gli altri seminudi o vestiti con cotone, meglio adattati al clima locale; i conquistadores abituati a lavorare per l’intera giornata e per tutto l’anno per avere un raccolto sufficiente alla sopravvivenza e al mantenimento di una ricca nobiltà, gli indigeni che in un paio d’ore si procuravano l’alimentazione per la riproduzione della propria vita e che vivevano una vita di pigrizia e di tempo libero, quindi non erano abituati a un lavoro costante ed estenuante, alienante. A questa enorme differenza di mezzi vitali si univa una poderosa disponibilità di mezzi tecnici da parte dei conquistadores, che avevano strumenti di metallo, armi da fuoco e animali addomesticati; gli indigeni avevano soltanto strumenti di legno e pietra, non addomesticavano animali perché non ne avevano bisogno – salvo gli Inca, che vivevano, a loro volta, in terre poco fertili. L’uso delle armi da fuoco permise ai conquistadores di far fronte all’enorme numero di indigeni che era possibile schierare in battaglia. Inoltre il grande rumore di queste armi terrorizzava gli indigeni, oltre all’effetto delle ferite inferte a distanza. La superiorità tecnologica degli europei era una conseguenza delle difficoltà di vita nel continente europeo e si rovesciò in uno dei fattori che permisero la conquista.

Anche l’uso dei cavalli terrorizzava gli indigeni, perché credevano che il cavallo e il cavaliere fossero una sola creatura e la loro mentalità non riusciva a comprendere come questa unica creatura potesse dividersi in due, quando il cavaliere scendeva da cavallo. Quindi i conquistadores sfruttarono anche l’immaginazione degli indigeni per massacrarli. La concezione religiosa degli aztechi fu sfruttata a proprio favore dai conquistadores quando seppero che erano stati scambiati come emissari di Quetzalcoatl (Serpente piumato) identificato con lo Spirito del Vento, che sarebbe tornato, secondo una concezione ciclica del tempo. Le sembianze di Quetzalcoatl erano quelle di un uomo bianco, biondo e barbuto, quindi molto simile a qualcuno dei conquistadores, che sfruttarono anche questa concezione religiosa indigena.

Insomma, volendo usare le immagini dell’Apocalisse di Giovanni, i conquistadores somigliano più all’esercito di Satana che all’esercito di Gesù. Questa immagine apocalittica è ancora più stridente con la maggiore conseguenza della conquista: la Conquista dell’America fu l’apocalisse che rappresentò il fallimento morale del cristianesimo. Sostengo che sia stato un fallimento morale del cristianesimo, perché la religione dell’amore e della pace fu usata come copertura ideologica della conquista stessa, dell’Olocausto e le voci dei cristiani che si levarono contro questo Olocausto furono poche e isolate. I valori umani del cristianesimo rimasero al di là della prassi dei cristiani. Nella pratica messa in atto dai conquistadores gli stessi indigeni si accorsero che ciò che i conquistadores cercavano non era il Dio, a cui dicevano di credere e che imponevano agli indigeni con la violenza di convertirsi, ma l’oro e i metalli e i minerali preziosi; la loro prassi era saccheggiare costantemente le popolazioni locali. Questa prassi dimostra che il cristianesimo in quindici secoli di esistenza, in dieci secoli di controllo pressoché assoluto della società civile europea non riuscì a cambiare la natura umana degli europei, che rimasero servi della cupidigia. Finanche il primo europeo a sbarcare in America, Cristoforo Colombo, era servo di questa cupidigia: «L’oro è il più prezioso di tutti i beni, l’oro costituisce un tesoro; e colui che lo possiede, può fare ciò che vuole in questo mondo, ha i mezzi per salvare le anime del purgatorio e anche condurle al Paradiso»[16]. L’oro è il dio della Terra, ma che ha potere di intervento anche nei Cieli, come per altro, ammetteva la stessa Chiesa romana. La cupidigia dell’oro ha guidato l’Apocalisse della conquista. Dussel parla di un secondo rovesciamento del Cristianesimo a proposito della Conquista dell’America, perché «si produce una nuova determinazione nefasta della natura della cristianità (questa stessa era già un rovesciamento distruttore del cristianesimo messianico primitivo). Oltre che cristianità (primo rovesciamento) sarà adesso una cristianità centrale, imperiale, dominatrice di colonie oppresse in nome del Vangelo del Crocifisso (secondo rovesciamento). Crocifiggerà indigeni in nome del Crocifisso»[17].

Un conquistador, Bernal Diaz del Castillo, lo riconosce apertamente, quando a proposito dei compagni morti nei combattimenti con gli indigeni afferma: «Sono morti con una morte crudelissima per servire Dio, sua Maestà e per dare la luce a coloro che stavano nelle tenebre, e anche per avere le ricchezze che tutti comunemente veniamo a cercare»[18]. Si tenga ben in conto questo “comunemente”, che rivela la convinzione diffusa tra i conquistadores di arricchirsi rapidamente a danno degli indigeni. Lo stesso Hernan Cortés mette ordine tra il servizio a Dio, al Re e alla propria brama di ricchezza: «La causa principale per la quale veniamo da queste parti è esaltare e predicare la fede di Cristo, benché insieme ad essa ci segue onore e profitto che poche volte stanno in uno stesso sacco»[19]. Fede e brama di arricchimento non possono convivere e si può immaginare quale delle due prevalse nell’animo della stragrande maggioranza dei conquistadores, ai quali, per altro, era dato l’incarico di insegnare il cristianesimo agli indigeni. Ma la loro pratica è esattamente opposta ai principi fondamentali del cristianesimo, quindi non potevano insegnare ciò che non praticavano. Gli indigeni in alcuni casi scambiarono non solo i conquistadores per demoni, ma anche i frati missionari, perché gli apparivano “creature povere e malate”, che preferivano “la tristezza e la solitudine” al “piacere e alla contentezza”, erano come “un uomo morto” e “avevano le loro donne nell’inferno”[20].

La testimonianza degli stessi indigeni è una aperta denuncia di questa cupidigia: «Diedero agli spagnoli bandiere d’oro, bandiere di piume di quetzal [trogone splendido] e collari d’oro. E quando gli ebbero dati questi, gli sorrideva la faccia, erano molto allegri (gli spagnoli), si stavano dilettando. Come se fossero scimmie sollevarono l’oro, come gesticolavano con piacere, come gli rinnovava e gli si illuminava il cuore. È certo che questo anelano con grande sete. Perciò gli si allarga il corpo, hanno fame furiosa di questo. Come porci affamati sono ansiosi di oro»[21]. Gli indigeni si rendono conto che il rapporto tra gli spagnoli e l’oro è un rapporto che non li eleva trascendentalmente, ma li riduce a uno stato animale, scimmiesco. Erano finalmente davanti allo scopo finale della loro Conquista, al loro vero dio, per cui operano un rovesciamento dei valori: l’Oro è il mezzo per la propagazione della fede, soprattutto perché è la fonte di finanziamento della stessa conquista e delle guerre di religione in Europa. Le motivazioni politiche sovrastano quelle religiose e morali e trasformano in bestie i cristiani.

Duecentocinquanta anni dopo Diderot parlerà di tigri, descrivendo il carattere del conquistador europeo: «È servile quando è debole, violento quando è forte, pressato dal desiderio di guadagnare e di godere, e capace di qualunque crimine pur di raggiungere al più presto i suoi scopi. È simile a una tigre addomesticata che torna alla foresta: la sete di sangue la riprende. Tali si sono mostrati tutti gli europei, tutti indiscriminatamente, nei paesi del Nuovo Mondo, dove hanno recato un comune furore: la sete dell’oro»[22]. Il cristianesimo ha soltanto addomesticato la maggioranza dei propri credenti, non appena la disponibilità di ricchezze li portò di fronte alla possibilità di arricchirsi velocemente, ogni valore morale cristiano fu dimenticato, mostrando chiaramente quel fallimento a cui facevo riferimento prima.

È vero che Cortes converte in massa gli indigeni al cristianesimo, ma è una conversione formale, soprattutto determinata dalla convinzione indigena che gli spagnoli siano divinità e sono pronti ad obbedire a qualsiasi imposizione di questi e anche per sfruttare la capacità di conversione che il cristianesimo ha nei confronti delle vittime. I conquistadores, prima, produssero vittime e poi a queste vittime promisero una vita migliore in un’altra vita. Gli indigeni «erano molto timorosi, la paura li sopraffaceva, erano spaventati, una grande ammirazione si era diffusa tra di loro. Nessuno osava venire là, come se ci fosse una fiera, come ci fosse il peso della notte. Ma nonostante ciò, non li [agli spagnoli] lasciavano. Gli consegnavano tutto quanto avevano bisogno, benché lo consegnassero con paura»[23]. Timore reverenziale verso divinità aliene, che alimentavano questo timore con manifestazioni di potenza inaudita per gli indigeni: «Presto sparò un cannone: tutto si confuse. Si correva senza meta, la gente si disperdeva in ogni direzione, sbandavano, come se li inseguissero in fretta. Tutto questo era come se avessero mangiato funghi stupefacenti, come se avessero visto qualcosa di spaventoso. Dominava in tutti il terrore, come se tutto il mondo fosse sfiduciato»[24]. Sono scene di puro terrore, che abbiamo visto nei volti dei presenti, ad esempio, ad attentati terroristici. Gli spagnoli sparsero il terrore di proposito. Durante una festa religiosa indigena, gli spagnoli «entrano nel Cortile Sacro per uccidere la gente. […] Cercano quelli che ballano, si lanciano nel luogo degli altari: diedero un taglio a chi stava suonando la tromba: gli tagliarono entrambe le braccia. Subito lo decapitarono: subito cadde la sua testa recisa. In quel momento accoltellavano tutti, colpiscono con la lancia e tagliano, feriscono con le spade. Ad alcuni sono corsi dietro; immediatamente le budella caddero a terra disperse. Ad altri strapparono la testa; gli tagliarono la testa, la loro testa fu fatta interamente a brandelli. Ad altri gli infersero tagli nella schiena: ferite, a brandelli i loro corpi. Ad alcuni ferirono le cosce, ad altri i polpacci, più in là altri in pieno addome. Tutte le budella caddero a terra. C’erano alcuni che correvano ancora invano: trascinavano gli intestini e sembravano aggrovigliarsi i piedi in essi. Ansiosi di porsi in salvo, non trovavano dove dirigersi. Poi alcuni tentavano di uscire: lì all’entrata li ferivano, li pugnalavano. Altri scalavano i muri; ma non potevano salvarsi. Altri si chiusero nella casa comune: lì furono salvi. Altri si confusero tra i morti, si finsero morti per fuggire. Apparendo morti, si salvarono. Ma se qualcuno, allora, si alzava, lo vedevano e lo pugnalavano. Il sangue dei guerrieri, come se fosse acqua, correva: come acqua che ha allagato e il fetore del sangue si alzava in aria, e quello delle budella che sembravano trascinate»[25]. Mi scuso con il lettore per la descrizione della sanguinaria azione degli spagnoli, ma siamo di fronte alla descrizione di un’apocalisse.

Soltanto dopo una tale descrizione possiamo capire quanto fosse barbarico il livello civile dei conquistadores. Barbarie che si era affinata nella Reconquista e che si può scatenare senza limiti contro una popolazione timorosa e pacifica. C’è da chiedersi: erano cristiani gli autori dell’apocalisse o erano diavoli? Si può rispondere che gli indigeni si trovavano nella condizione delle vittime dell’Apocalisse, erano i veri cristiani, perché il cristianesimo è religione delle vittime, vittime dei credenti nel dio dell’oro. Gli stessi domenicani confessarono che le violenze dei conquistadores erano peggiori delle sofferenze degli ebrei in Egitto: «Neanche il Faraone e il Egizio avevano maltrattato con tanta crudeltà il popolo d’Israele, nemmeno i persecutori dei martiri nei confronti dei figli della Chiesa»[26]. Ebrei e primi cristiani sono il paradigma della vittima, a cui tutti i cristiani guardano, ma pochi cristiani oggi guardano agli indigeni massacrati in America dai conquistadores cristiani come vittime. Gustavo Gutierrez ricorda il parallelo che Las Casas fece tra Cristo e gli indigeni con le parole dello stesso frate domenicano: «Cristo non è venuto nel mondo a morire per l’oro»[27].

Le forme della cristianizzazione dell’America furono quelle tipiche della diffusione di un potere, non della diffusione di una dottrina che acculturava gli indigeni e li assimilava alla nuova religione. Gli evangelizzatori si scontrarono frontalmente con la religione degli indigeni, considerandola un paganesimo e una forma di demonizzazione. La contraddizione chiara e aperta contro le divinità pagane indigene fu violenta, d’altronde la comunicazione linguistica tra evangelizzatori e indigeni non era facile. L’evangelizzazione assunse le forme che aveva assunto in Europa all’affermazione del cristianesimo, cioè bisognava sostituire a qualsiasi costo la religione pagana, non puntando sulla convinzione, ma sulla coercizione. Fu una lotta tra civiltà cristiana e barbarie pagana. Il teologo Franz Hinkelammert è lapidario su questo punto: «La conquista e la conversione al cristianesimo continuerà ad essere il modello delle conquiste spagnole e portoghesi. Dio come ricompensa delle ricchezze dei paesi conquistati come bottino. Cortés conquista il Messico in nome di Dio e del re. Roba, ricchezza sono la ricompensa. Dio e il re non sono pretesti. Non si tratta, in realtà, delle ricchezze prendendo Dio come pretesto. Si tratta realmente di Dio, ma Dio è l’altra faccia di queste ricchezze»[28]. Il saccheggio è il profitto della cristianizzazione dell’America, il presso dell’evangelizzazione è pagato dagli stessi indigeni.

Da parte loro gli indigeni furono colpiti dalla differenza di stile di vita sia dei conquistadores che degli evangelizzatori. La più grande differenza per gli indigeni era che per loro il futuro non presentava alcun problema, mentre per i cristiani il futuro doveva essere indirizzato ad affrontare il giudizio divino e la salvezza, l’Apocalisse. Gli indigeni non formulavano un giudizio sul mondo esistente, mentre per i cristiani l’esistente era sempre in contraddizione con il mondo futuro, essi si aspettavano qualcosa che si dovesse realizzare. Inoltre la dottrina del peccato originale era del tutto sconosciuta agli indigeni che non formulavano affatto un auto-giudizio su se stessi. I cristiani venivano dal male e dovevano operare per ottenere il bene futuro.

I primi frati francescani avevano identificato S. Francesco come l’angelo dell’Apocalisse, che apriva le porte della sesta era, inaugurando l’età dello Spirito Santo. Questa dottrina si diffuse con successo in America centrale, dove l’Apocalisse della conquista era già avvenuta e la speranza di un mondo migliore futuro, promesso dagli evangelizzatori, poteva riscattare dalle disgrazie inflitte dai conquistadores. Da qui si comprende come alcune forme di cristianesimo americano, ancora oggi in voga, siano profondamente mistiche, perché la realtà quotidiana è apocalittica. Anche il cristianesimo americano, sia al Nord del continente che al Sud, ha forme più collettive di fede che individuali. È estremamente facile che si formino comunità di fedeli, che insieme possano estraniarsi dalla quotidiana apocalittica. La Chiesa gestiva queste forme di misticismo collettivo, ponendo sempre al centro dell’attenzione dei fedeli indigeni il sacrificio, la crocefissione, la morte. L’accettazione del sacrificio era complementare all’accettazione del dominio coloniale che si stava imponendo. L’Apocalisse diventava un paradigma politico, economico, sociale e culturale. Era il futuro, oltre che il presente, degli indigeni.

[1] Tutte le informazioni filologiche sono tratte da Franco Rendich, Dizionario etimologico delle lingue classiche indieuropee, Roma, Palombi, 2010, pp. 28-31.

[2] È questa in fondo l’interpretazione che dà Newton dell’Apocalisse (cfr. I. Newton, Trattato dell’Apocalisse, a cura di M. Mamiani, Torino, Bollati Boringhieri, 1995, I ris.).

[3] Paolo, Seconda Lettera ai Tessalonicesi, 3, 10-13 (la sottolineatura è mia).

[4] Franz Hinkelammert, Hacia una crítica de la razón mitica. El laberinto de la modernidad, San José, Arlekin, 2007, pp. 109-110.

[5] Prima Lettera di Pietro, 1,2.

[6] G. Lukács, Estetica, vol. I, tr. it. A. Marietti Solmi, Torino, Einaudi, 1970, p. 519.

[7] Cfr. F. Rendich, op. cit., pp. 131.

[8] Tucidide, La guerra del Peloponneso, II.53, tr. it. E. Savino, Milano, Mondadori, 1984, IV ed., p. 124.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ibidem.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] R. Marino, Colombo e il papa tradito, Roma, Newton Compton, 1991. Secondo Marino, Colombo era arrivato in America nel 1485 e, quindi, nel 1492 sapeva benissimo dove stesse andando. È però certo che Colombo aveva potuto vedere la carta di Enrico Martello del 1491, dove è disegnata per la prima volta l’America. È probabile che Martello avesse avuto notizia dell’esistenza del continente da mappe cinesi, dato che i cinesi erano arrivati in America, dal Pacifico, nel 1421. Sull’arrivo dei cinesi in America nel 1421, cfr. Gavin Menzies, 1421. La Cina scopre l’America, tr. it. M. C. Coldagelli e A. Listuzzi, Roma, Carocci, 2002.

[15] E. Dussel, 1492. El encubrimiento del otro. Hacia el origen del “mito” de la modernidad, Madrid, Nueva Utopia, 1992, p. 29 (La traduzione è mia).

[16] C. Colón, Textos y documentos completos, a cura di C. Varela, Madrid, Alianza Universal, 1982, p. 327 (la traduzione è mia, A. I.).

[17] E. Dussel, “La crítica de la teología como crítica de la política”, in Id., Filosofías del Sur, México, 2015, p. 328 (la traduzione è mia, A. I.).

[18] B. Diaz del Castillo, Historia verdadera de la conquista de la Nueva España, Madrid, Espasa-Calpe, 1968, p. 607 (la traduzione è mia, A. I.).

[19] Francisco Lopez de Gomora, Hispania victrix, in E. Vedia e altri (a cura di), Historiadores primitivos de Indias, Madrid, 1875 (la traduzione è mia, A. I.).

[20] F. Cervantes, El diablo en el nuevo mundo, Barcelona, Herder, 1996, pp. 74-75 (la traduzione è mia, A. I.).

[21] Visión de los vencidos. Relaciones indígenas de la Conquista, a cura di M. León-Portilla, México, Unam, 2003, p. 52 (la traduzione è mia).

[22] D. Diderot, “Le colonie in generale”, in Id., Ritorno alla natura, tr. it. A. Santucci, Roma-Bari, Laterza, 1993, p. 89.

[23] Visión de los vencidos, p. 71 (la traduzione è mia).

[24] Ivi, p. 67 (la traduzione è mia).

[25] Ivi, p. 79 (la traduzione è mia).

[26] Lettera dei domenicani a Carlo V del 27 maggio 1517 in M. A. Medina, Una comunidad al servicio del indio. La obra de Fr. Pedro de Córdoba O. P., Madrid, Instituto Pontificio de Teologìa, 1983, p. 259 (La traduzione e la sottolineatura sono mie).

[27] Cfr. G. Gutiérrez, Dio o l’oro. Il camino di liberazione di Bartolomé de Las Casas, tr. it. E. Demarchi, Brescia, Queriniana, 1991, p. 162.

[28] F. Hinkelammert, Hacia una crítica de la razón mitica. El laberinto de la modernidad, San José, Arlekin, 2007, pp. 33-34 (la traduzione è mia, A. I.).