L’età delle catastrofi

Un’epoca della modernità s’è evidentemente conclusa. Il capitalismo è infatti divenuto capitalismo universale. Ma pandemia e guerra stanno lì a dimostrare quanto la sua modernità, che almeno dal XVI° sec. ha significato crescita progressiva della ricchezza e allargamento dei beni primari a masse sempre più estese della popolazione, si sia venuta ormai estenuandosi.

Potremmo definire “età delle catastrofi” il periodo storico nel quale l’umanità si accinge ad entrare, o meglio nel quale è già entrata a partire dalla globalizzazione dell’economia neoliberale che s’è iniziata storicamente con l’implosione dell’Unione Sovietica e la diffusione dell’economia a dominanza di capitale all’intero pianeta. Nel giro di trent’anni il neoliberismo, vale a dire il capitalismo come espansione illimitata del capitale, nella sua forma di capitale produttivo, capitale finanziario e capitale commerciale, ha mostrato dopo un decennio di diffusione e sviluppo, tutti i suoi intrinseci limiti, per proporsi, nell’orizzonte di un passaggio egemonico dagli Stati Uniti alla Cina, come sintesi di tre catastrofi che sempre più si apprestano e stanno per attraversare e devastare la vita del XXI° secolo.

Tale nuova età delle catastrofi si configura attraverso la compresenza del suo agire su tre livelli distinguibili ma pure riconducibili a facce di una stessa realtà.

1. La catastrofe ecologica, 2. La catastrofe geo-politica, 3. La catastrofe antropologica della mente.

 

 

1. La catastrofe ecologica

La drammatica pandemia di Covid-19 che l’umanità ha sofferto negli ultimi tre anni  può essere definita come una globalizzazione al contrario. Giacchè, mentre la globalizzazione “in positivo” ha stretto in una rete planetaria sempre più articolata e connessa mercati delle merci e del denaro, scambio e processo di informazioni, nuove tecnologie e sistemi flessibili di produzione, popolazioni e Stati, con una tendenza cen- tralizzante verso la Cina (probabile futura potenza egemonica mondiale), la globalizzazione in “negativo” del Covid-19 ha utilizzato quelle medesime vie, nel verso opposto, di una unificazione dell’umanità nel segno della malattia e dell’estenuazione della vita (con un movimento rovesciato e centripeto, anche qui e non caso, della Cina verso il resto del mondo).

Ma comprendere la natura profonda di tale rovesciamento e l’intensità della cesura storica che esso comporta, significa mettere in campo non solo un giro all’indietro di carattere spaziale e sincronico, bensì anche, e contemporaneamente, un giro all’indietro di carattere temporale e diacronico. Perché la portata dell’evento pandemico è stata ed è tale da concludere, almeno a mio avviso, una fase della modernità. Nel senso di aver posto fine a quel processo storico che data almeno a partire dalla fine del XV° sec. e che ha visto, malgrado le molte interruzioni, un continuo progredire, quanto ad accesso e disponibilità di valori d’uso, quanto cioè a miglioramento in assoluto dello statuto e della riproduzione materiale della vita, di quote sempre più ampie, di ceti, di classi sociali, di nazioni, della popolazione mondiale.

Se ci rifacciamo alla scuola della cosidetta «economia-mondo» di Wallerstein e di Arrighi, ossia ad una teoria della mondializzazione economica di lunga durata che, iniziata nel Quattrocento, è durata fino alla fine del Novecento, pur con molto diver- si riassetti e configurazioni tra centro e periferia, siamo infatti pressocchè obbligati ad affermare che qualsiasi ripresa economica postpandemica non potrà che, di qui in poi, scontrarsi con i limiti di sostenibilità e di uso delle risorse proprie dell’ecosistema dell’intero pianeta.

Non a caso recenti studi hanno parlato a proposito del Covid-19 di una “epidemia attesa”, preannunciata dall’incremento e dall’esplosione delle epidemie a livello mondiale a partire dal 1990. A partire da quella data si parla del diffondersi di una “epidemia di epidemie”, il cui 70% sembra poter esser definito come “zoonosi”, ossia epidemie dovute a microrganismi che sono passati dall’animale all’uomo. Deforestazioni, allevamenti intensivi zootecnici di enorme dimensione quantitativa, riduzione assai elevata della biodiversità (dovuta in buona parte all’uso di sementi Ogm), accellerazione degli scambi su scala mondiale, appaiono essere alla base di una intensificazione epidemica che non ha confronti con quanto accaduto sul piano medico-epidemiologico almeno nel secolo che va dal 1850 al 1950.[1].

Come ha ben scritto Richard Horton, caporedattore di The Lancet, una delle più autorevoli riviste internazionali di medicina, «Covid-19 is not a pandemic». Perché, a ben vedere, è una «sindemia», ossia una malattia che trova le sue cause, insieme, nelle ineguaglianze sociali da un lato e nella crisi ecologica, intesa in senso lato, dall’altro. Infatti quest’ultima, includendo in essa anche la dequalificazione del cibo che ingeriamo, produce non solo alterazioni profonde del clima ma anche un aumento continuo di malattie croniche (come cancro, diabete, ipertensione, malattie cardiovascolari e respiratorie) che rendono assai fragile la salute della popolazione di fronte all’insorgenza dei nuovi rischi sanitari. Senza dimenticare ovviamente lo smantellamento del sistema sanitario dell’ultimo trentennio che, come ben tutti sappiamo, ha visto venir meno ogni sanità, urbana e non-urbana, di base e la privatizzazione di moltissime prestazioni. Ma si può aggiungere che sia l’intera attitudine di uso e sfruttamento delle risorse naturali a dirci che siamo giunti a un grado di manipolazione del vivente elevatissimo, molto facilitato, sul piano della ricerca biologico-industriale, da una riduzione scientista della complessità della vita alla sua codificazione informatica e genetica, che oggi domina, secondo un’ispirazione, tristemente meccanicistica, la biologia molecolare.

Tanto che di fronte all’accaduto dell’estendersi all’intero pianeta del Covid-19 appare oggi meno fondamentale chiedersi il tempo e il luogo determinati dove quel virus biologico si sia formato. Se per un salto di specie, dovuto appunto alla deforestazione e alla diminuzione della biodiversità, con la conseguente rottura di clusters conservati da lunghissimo tempo in nicchie biologiche, o, invece, alla fuga da un laboratorio di sperimentazione e manipolazione molecolare (il laboratorio di Wuhan finanziato da aziende e investimenti occidentali), nella ricerca spasmodica che caratterizza da molti anni a questa parte la produzione industriale di nuove molecole. Visto che ciò che conta oggi assai di più è che il fenomeno pandemico, insieme al surriscaldamento del globo terrestre (due facce appunto della stessa medaglia), costituisce il segno, più drammaticamente e tangibilmente evidente, del fatto che l’espansione della modernità sia giunta ormai a scontrarsi con il limite di sostenibilità dell’intero pianeta e, sopratutto con la possibilità di sopravvivenza dell’intero genere umano, almeno quanto a un livello sufficientemente buono e generalizzabile di vita.

Ed è proprio in questo senso che la sindemia del Covid-19 ha conchiuso e concluso, anche diacronicamente, la lunga storia della modernità. Perché, ritornando alla sua origine, ne ha curvato e riassunto l’intero percorso, esplicitandone l’identità che maggiormente l’ha caratterizzata e configurata. Quella, cioè, di un vettore, insieme di produzione materiale e di produzione sociale, che, nella sua anima più intrinseca di astrazione quantitativa di ricchezza, di accumulazione e valorizzazione di valore, ha vissuto e vive, per suo principio, di una tendenza incontenibile verso l’illimitato, ossia verso la crescita e la dismisura quantitativa. E che in base a tale suo costituzionale principio è obbligato a colonizzare e a piegare a tale sua logica di moltiplicazione quantitativa l’intero mondo della vita concreta, così della natura umana come della natura non-umana.

Ma appunto questa tensione di una ricchezza astratta verso l’illimite della sua accumulazione/universalizzazione – che costituisce la definizione del concetto di Capitale come tale data da Marx, prima della sua concretizzazione nei mille capitali concreti ad opera dei capitalisti individuali e concreti – è giunta ormai ad urtare  contro il cerchio promosso dalla sua stessa globalizzazione. Portando in questo modo a verità tangibile e chiara, con un singolare effetto di Nachträglichkeit (di conferma posticipata) il senso più profondo del Capitale marxiano, nel suo essere più che una scienza della contraddizione una scienza di un’astrazione storica sistemica, cioè del modo in cui un vettore di socializzazione astratto e impersonale come il capitale sia capace di intessere di sè la società intera:

  • sia come produzione di un enorme ammasso di merci;
  • sia come ri/produzione asimmetrica di rapporti sociali;
  • sia come opera di produzione ideologica e simbolica dell’immaginario collettivo.

Tanto che, a ben vedere, non di antropocene si dovrebbe parlare, riguardo alla manipolazione di un indifferenziato genere umano nei confronti della natura (secondo quanto ha voluto la critica metafisica della “tecnica” imposta nel secolo scorso da Martin Heidegger), bensì, assai più propriamente, di capitalcene, quale l’opera di una ben determinata parte e classe sociale nel suo operare, insieme, contro l’umano e contro il naturale.

Di questa catastrofe ecologica il virus del Covid-19 ci ha dato la testimonianza più cruda ed estrema nella sua veridicità e proprio la sua pregnanza di significato ci esorta a pensarlo, non come mero virus biologico di cui sarebbe sufficiente bloccare la circolazione, ma come sintomo e simbolo insieme di quel virus sociale ed economico che l’ha generato e che rimanda al sistema del capitalismo universale, con il suo flusso sempre più inarrestabile di merci, informazioni, capitali e persone.

Quello che giunge a conclusione oggi è dunque il mito del progresso, di un presunto sviluppo unilineare della storia e della estensione progressiva e sempre più ampia di beni e servizi all’intero genere umano, quale conseguenza della sua centralità e superiorità fabbrile di contro alla subalternità della natura.

2. La catastrofe geo-politica

La cesura antropologica e sociale generata dal Covid-19, se interpretata come accadimento di natura non solo biologica, introduce insomma a una nuova fase del capitalismo mondiale che sarà caratterizzata da un intensificarsi della concorrenza per l’utilizzo e lo sfruttamento di un campo di risorse tendenzialmente più limitato e definito. Vale a dire che, lungi da ipotesi profetizzanti il crollo e la fine del capitalismo, quello a cui assisteremo nel prossimo futuro vedrà verosimilmente – insieme al passaggio, parimenti epocale, dell’egemonia economica (e necessariamente anche militare) mondiale dagli Usa alla Cina o comunque a una condizione multipolare – una lotta sempre più ampia per le risorse disponibili, gestita in primo luogo dal grande capitalismo tecno-finanziario.

Questa nuova fase della storia del capitalismo (nuova perché appunto stretta nei confini del limite ecologico) – ha quindi tutta la potenzialità di vedere un acuirsi dram- matico della polarizzazione tra luoghi e socialità della ricchezza e luoghi e socialità dell’impoverimento, con un improbabile venir meno del ruolo dello Stato, giacchè una condizione di concorrenza esasperata e generalizzata per le risorse, il controllo degli enormi flussi emigratori e il passaggio egemonico dall’area atlantica a quella del Pacifico sollecitano a pensare a una forte continuità nella politica degli armamenti e della funzione militare e geo-politica dello Stato. Salvo ad aggiungere che sarà uno Stato sempre più identificato con la cultura del neoliberismo, della estensione cioè delle regole contabili del mercato a tutte le sfere della vita individuale e sociale: con una possibile piccola variante nel verso dell’ordoliberismo, quale religione della generalizzazione del mercato contemperata da misure assistenziali di mera sopravvivenza di vita per gli strati più precari e deboli della popolazione.

   Per altro la lezione di Marx sulla società moderna ci ha insegnato che il capitale è animato non solo da una tendenza insopprimibile verso l’illimitato, e dunque da un conflitto permanente rispetto alla riproduzione dell’ambiente e di tutte le forme di vita, ma anche da una natura propria intrinsecamente bellica e conflittuale sul piano delle relazioni sociali.  Perché è da un lato in lotta costante con la classe dei lavoratori, al fine di ricondurre la loro prestazione lavorativa a lavoro astratto, cioè a lavoro disciplinato e normato secondo i protocolli dell’impresa, e dall’altro è sempre in lotta di concorrenza con gli altri imprenditori capitalisti per la conquista del mercato e la realizzazione/vendita del suo plusvalore.

   Illimitatezza e conflittualità definiscono in tal modo per Marx le categorie costituzionali di ogni capitale, il “concetto” che ne definisce l’essenza ultima e che ne comanda la processualità, quale che sia la produzione empirica e concreta di valori d’uso che l’azione del singolo capitalista sceglie di intraprendere.

Da questo codice impersonale di condotta, coerente con la natura impersonale della ricchezza astratta da accumulare – da questa compenetrazione di illimitatezza e conflittualità deriva, per dirla in modo semplificato e assiomatico, tutta la storia della modernità. Almeno così come l’ha ben teorizzata Giovanni Arrighi, almeno a partire da Capitalismo e (dis)ordine mondiale, quale susseguirsi di passaggi egemonici attorno a un centro di potere economico-politico di volta dominante, raggiunto anche e sempre per mezzo di una vittoria di guerra.

Un passaggio egemonico è certamente sempre ed anche di natura culturale, quanto ad affermazione di nuove idee e di nuovi valori, ma è soprattutto istituito su una maggiore potenza di natura economico-militare. Ed appunto nel quadro di un confronto geopolitico di forze economiche e militari che va iscritta la guerra appena accesasi in Europa tra Federazione Russa ed Ucraina. Essa è un episodio, guardando assai in avanti, del confronto futuro tra la decadenza progressiva dell’impero americano e l’accrescimento sempre più esteso della potenza cinese. Ma è contemporaneamente l’esito, guardando all’indietro, di una politica dell’egemonia basata appunto sulla sconfitta economico-militare dell’avversario in questione e sulla sua riduzione a una condizione di impotenza. Come è avvenuto con l’implosione e la caduta dell’Unione Sovietica alla fine degli anni ‘80, quando, a conferma in primo luogo di un confronto duro tra forze e potenze, non c’è stata tolleranza e pietà alcuna per i vinti. Nel senso che non v’è stata alcuna intenzione da parte della potenza americana, uscita vincitrice della guerra fredda, di includere in un progetto di evoluzione democratica e di integrazione europea la popolazione russa, preferendola lasciare in balia di un capitalismo selvaggio e autoritario. Basti pensare al bombardamento da parte di Boris Jeltsin del parlamento russo, con i 180 morti che ne sono seguiti e subito messi da parte, e al consenso di fondo del mondo occidentale con cui quell’operazione bonapartista è stata accettata.

La guerra in Ucraina è parte di questo gioco drammatico di colpi e controcolpi, secondo un’ottica di mera potenza, della cui cruda realtà il richiamo alla democrazia è solo apparenza e propaganda. In questo contesto è quindi verosimile pensare che una condizione permanente di guerre, più o meno dichiarate, caratterizzerà gli anni futuri, nella lotta durissima che segnerà lo spostamento dell’asse mondiale dall’Atlantico al Pacifico.

3. La catastrofe antropologica della mente

Ma sindemia e guerra, che hanno introdotto la nuova epoca delle catastrofi inaugurata dal capitale universale, hanno portato sulla scena anche la terza dimensione, inevitabilmente partecipe di un tale passaggio storico, che è quella della catastrofe e della estenuazione generalizzata della mente.

Catastrofe sindemica e catastrofe geo-politica sono infatti accompagnate entrambe  da una massificazione dell’opinione pubblica così univoca e maggioritaria, e nello stesso tempo da un manicheismo di contrapposizione così estremo e volgare, da ben rivelare qual è la tendenza di fondo, sul piano della formazione delle coscienze e della produzione di idee, di una produzione di capitale che s’è fatta progressivamente cornice generale e integrale della vita, sia individuale che collettiva.

E’ dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso del resto, dall’esaurirsi cioè dei grandi movimenti di insubordinazione e di emancipazione, che con l’affermarsi del neoliberismo e delle nuove tecnologie dell’informazione s’è venuto vieppiù accentuando un processo di svuotamento e di superficializzazione della mente che potremmo anche definire come la genesi e la moltiplicazione della mente orizzontale. Con questo termine intendo una mente che accoglie il significato delle sue operazioni discorsive e cognitive assai più, quando addirittura non esclusivamente, da una fonte di senso e da un sistema di informazioni esteriore, che non dalla propria interiorità di affetti e di idee. Quando cioè la mente, rinunciando all’asse verticale della sua costituzione (quanto al rapporto tra logos e pathos della propria interiorità), si distende e si esteriorizza tutta su un asse orizzontale, accogliendo discorsi, valori e idee assai più dal mondo esterno che dal proprio mondo interno[2].

Baruch Spinoza aveva posto a base della sua Etica nel XVII° sec. una teoria della mente per la quale “l’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto, e niente altro” (II, 13). Ossia una concezione per la quale la funzione della mente è in primo luogo quella autoriflessiva di prendere ad oggetto di cura e interesse del suo pensare la propria vita corporea biologico-emozionale, portandola, aggiungeremo noi con la psicoanalisi e la neurobiologia moderna, a relazione e mediazione con la realtà ecologica e storico-sociale del suo ambiente esterno. Già Spinoza aveva cioè introdotto nella cultura moderna la visione di una costituzione antropologica basata su un duplice asse, verticale e orizzontale, e del loro necessario integrarsi e reciproco riconoscersi, pena la genesi di profonde atrofie e deformazioni della mente. Ed appunto ciò che oggi è in questione è proprio la diffusione di una mente di massa che stenta profondamente ad attingere senso e progetto di vita a muovere dal proprio fondo emozionale per fissarsi su informazioni, immagini e configurazioni di valori e di senso che provengono solo dall’alterità.

In tale progressiva sostituzione e impoverimento di una mente emozionale con una mente solo linguistico-informazionale, quella che oggi sta assumendo un rilievo sempre più egemonico è la concezione del mondo come “infosfera”: ossia quella che a noi, in vero, appare proporsi come l’ultima ideologia, legata allo sviluppo delle nuove tecnologie digitali. La quale definisce il mondo appunto come scambio e messa in rete continua di informazioni, più precisamente come un luogo unificato e globalizzato da un processo permanente di accumulazione, calcolo e trasmissione di informazioni, di cui anche la mente umana, sempre più assimilata a un computer che processa dati, sarebbe parte integrata e in connessione.

Ora non c’è dubbio alcuno che l’umanità nel suo complesso stia vivendo quella che, parafrasando il libro di Clarisse Herrenschmidt, Les trois ecriturés, potremmo definire la terza grande rivoluzione nella storia dei sistemi comunicativi. Perchè, esprimendoci per enormi schematizzazioni storiche, se la prima grande rivoluzione è consistita nell’invenzione dell’alfabeto, cioè nella possibilità di scrivere e comunicare con solo 20/30 segni rispetto alla amplissima quantità di segni delle scritture ideografiche e geroglifiche, e se la seconda rivoluzione è consistita nell’invenzione della stampa a caratteri mobili, e dunque nella possibilità di disporre di molte più copie rispetto alla scrittura amanuense, la terza rivoluzione è indubbiamente quella che stiamo attraversando consistente nell’accesso a un nuovo mondo della codificazione, consistente in un sistema di matematizzazione che consente di tradurre i linguaggi storico-naturali in segni di formalizzazione matematica, calcolabili ad una velocità enorme rispetto alle capacità delle mente umana.

E’ cioè innegabile che ci troviamo di fronte ad una nuova stagione tecnologica capace, con degli strumenti che generano la nostra meraviglia, di aprire nuovi campi del nostro conoscere e di far avanzare moltissimo la messa in comunicazione dell’umanità, forse integralmente per la prima volta, con se medesima. Ma tutto ciò va accolto e valorizzato a patto che tale nuova strumentazione rimanga nell’orizzonte della strumentalità e che alla fine sia sempre l’umano a decidere della costituzione e della destinazione del digitale. A patto cioè che non si compia l’errore ideologico di prendere una strumentazione per la vera e oggettiva struttura della realtà, e, in questo scambio tra lo strumentale e l’ontologico, assumere che numeri, codici, formattazioni, intelligenza artificiale, costituiscano il modello intrinseco di una nuova realtà che non troverebbe più il suo significato ultimo nella materialità biologica del nostro corpo, nel sentire tridimensionale ed emozionale del nostro vivere, ma appunto nella virtualità di un mondo fatto di pixel e di strisce di segni alfanumerici.

Questo convincimento, a mio avviso fallace, che la realtà intera, sia naturale che umana, si strutturi e si risolva in codici e in informazione, che lo stesso cervello umano sia costituito da funzioni di elaborazione e calcolo di bit e codici binari, con la possibilità di un dialogo costante e paritetico tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, sta accompagnando e legittimando sul piano teorico un processo reale di  consegna della mente ai dispositivi informatici, agli automatismi degli algoritmi che velocizzano sempre più il loro procedere ed alla generazione obbligata ed esteriore di senso che da essi deriva[3].

Per tale via l’ideologia dell’infosfera, con il suo intendimento di una materia da leggersi come info-materia, ossia di un nuovo tipo di oggettività che sarebbe ricca di agency e di proprietà ecologico-connettive, giunge a superare ogni distinzione tra mondo organico e mondo inorganico e a proporre una visione del lavoro come bricolage, in una presunta cooperazione dialogica tra soggettività umana ed ambiente. Mentre a me appare invece solo come il volto trasfigurato di una soggettività di massa consegnata a un pensare senza profondità, la quale, senza capacità di stabilire nessi di causazione e di mediazione, rimane sedotta dall’immediato e dalla coloritura, la più appariscente, della superficie.

Ed è proprio di qui, da questa patologia psichica di massa, da questa esteriorizzazione della mente, che a nostro avviso deve muovere qualsiasi utopia di un’emancipazione futura. Giacchè per noi che frequentiamo da sempre, accanto a quello di Marx, il discorso di Gramsci, e siamo perciò lontani dalle mitologie operaiste e post-operaiste di classi e moltitudini presupposte come soggettività già compiute e alternative al divenire della storia del capitale, quello che potrà essere il soggetto di una possibile trasformazione sociale non è mai dogmaticamente presupposto, ma sarà solo il risultato di un lungo processo di costruzione e di una lotta egemonica di storia e produzione delle idee, per una appropriazione e liberazione, appunto, della mente.

Interiorizzazioni ed esteriorizzazioni

Alla base di questa nostra teoria del presente e dell’immediato futuro come tempo storico d’ingresso nell’età delle catastrofi sta il convincimento di fondo che la produzione economica basata sulla valorizzazione di capitale, produttivo, finanziario o commerciale, sia divenuta sempre di più un dispositivo impersonale di pratiche, guidato da protocolli obbligati ed oggettivi, che corrispondono alla natura “astratta” della ricchezza prodotta. Secondo la geniale intuizione di K. Marx il capitale è valore in astratto, ossia quantità di ricchezza monetaria che, indipendentemente dai valori d’uso concreti e particolari che produce, è finalizzata all’accrescimento della sua quantità iniziale. In quanto quantità in espansione, o valore in processo, indifferente al mondo qualitativo dei valori d’uso attraverso cui si realizza, il capitale è, nell’ispirazione marxiana (forse più nei Grundrisse che non in Das Kapital), soggettività storica a tendenza universale, cioè vettore che tende a uniformare l’intera realtà naturale e sociale alla sua crescita tendenzialmente illimitata. Ed è appunto, come tale, l’attore fondamentale della società moderna, il codice che si prova nella sua natura impersonale ed astratta ad assegnare a individui e classi sociali la funzione, non di veri soggetti, ma solo di personificazioni di ruoli economici, cioè di svolgimento di pratiche predeterminate e fissate dalla sua logica di accumulazione.

Nell’epoca della globalizzazione compiuta, qual è quella che stiamo vivendo, questa intuizione di Marx del capitale come dispositivo impersonale di universalizzazione giunge ad assumere realtà piena e matura. E si fa pari (in quanto Spirito universale del Mondo) allo “Spirito” (Geist) della filosofia di Hegel: quale dimensione totalizzante che produce i propri presupposti, ovvero che ritraduce tutto ciò che trova come ambiente storico e sociale «esterno», legato a formazioni sociali e culturali precedenti o di altra natura, in ambiente «interno», attraversato e regolato dalla sua più propria legge di produzione e di vita.

A tale opera di interiorizzazione storica, di traduzione dall’esteriore all’interiore, che è propria del capitale, in quanto soggetto progressivamente universalizzante e dominante dell’intera storia moderna, si accompagna, secondo la nostra visione, un processo, in qualche modo contrario, di esteriorizzazione, cioè di movimento e di produzione di effetti che vanno dall’interno all’esterno, dalle profondità dell’essere sociale alla sua superficie. Ed è appunto a tale duplice ed opposta dinamica di interiorizzazione e di esteriorizzazione che bisogna guardare per provare a intendere il “blocco storico” tra di economia della reductio ad unum propria della globalizzazione capitalistica, sul piano della struttura e di filosofia, invece, della differenziazione e della decostruzione di identità, sul piano della sovrastruttura, che ha costituito a nostro avviso la chiave di volta della cosidetta postmodernità a noi più prossima e la cui produzione di senso si prolunga ancora profondamente nel nostro presente .

Per altro, se la produzione di ricchezza astratta e della sua valorizzazione, come abbiamo detto, è, secondo la lezione di Marx, l’essenza, la destinazione fondamentale della società capitalistica, un vettore astratto di realtà è per definizione impalpabile, invisibile, inavvertibile all’esperienza dei sensi. Costituisce una sorta di «inconscio sociale», che, come tale, può rendersi oggetto di conoscenza e di esperienza sensibile solo attraverso gli effetti che produce nei corpi, nelle individualità e negli enti del mondo concreto. Per dire cioè che il processo capitalistico di produzione di plusvalore si fa realtà evidente solo da un lato nella diffusione generalizzata del lavoro astratto, quale pratica e forma di vita effettiva dei corpi e delle menti della forza-lavoro, e nella curvatura e manipolazione di senso, dall’altro, imposte all’intero mondo qualitativo dei valor d’uso e del contesto ambientale di natura[4].

La vera soggettività del capitale, quale protocollo accumulativo e impersonale di «ricchezza astratta», può manifestarsi infatti all’esperire umano solo indirettamente, attraverso i suoi effetti sul concreto. E tale effetti consistono propriamente nell’unione dei due processi che abbiamo appena definito: un processo di interiorizzazione per il quale ogni forma del vivente, sia cosa di natura o esistenza umana, viene colonizzata nel suo interno, rendendola strumento e funzione dell’accumulazione dell’astratto e, contemporaneamente, un processo di esteriorizzazione, per il quale, tale svuotamento interiore del concreto ad opera dell’astratto ne lascia residuare solo una pellicola di superficie che diventa, con la sua superficialità, con la sua valorizzazione isterica, direbbe F. Jameson, la negazione e la dissimulazione di tutto quanto accade nel suo interno[5].

Ma appunto è proprio e solo il marxismo dell’astrazione che, superati tutti i dogmatismi identitari e le filosofie della storia intrinseche ai marxismi della contraddizione, ci consente di penetrare in quel blocco storico, nel verso gramsciano del termine, di ipermodernità e postmodernità che, come s’è detto, nel nesso tra  produzione economica e produzione d’idee, stringe e serra il tempo odierno del capitale giunto ad essere tempo del capitale universale. Giacchè, se per ipermodernità intendiamo la radicalizzazione sul piano economico del moderno quanto a unificazione del mondo sotto il segno di quel Soggetto che è lo Übergreifende Subjekt di Marx («Soggetto che pervade e domina l’intera realtà»)[6], per postmodernità s’ha da intendere il complesso di idee, di ideologie, di filosofie, che non possono non accompagnare quel processo reale, registrandone e valorizzandone sul piano ideale gli effetti e le configurazioni di sola superficie.

Il fenomeno culturale del postmoderno può essere assai schematicamente riassunto nella formula, ormai classica ma sempre assai efficace, concepita da Romano Luperini di una visione complessiva istituita sull’assunto che tutta la realtà sia riducibile nella sua interezza a linguaggio, che l’«Essere non sia altro che linguaggio». Ossia che la realtà non si strutturi secondo princìpi sistemici, vettori di universalizzazione o fondamenti di forte valenza identitaria e diffusiva, ma che, all’opposto, essa sia costituita da documenti, da segni, da eventi, che si sottraggono ad ogni rigidità causalistica e ad ogni fissazione oggettivistica di verità, per essere interpretati, invece, alla luce di un’ermeneutica relativizzante che rimanda, a sua volta, ad ulteriori complessi di segni e alla collocazione sempre peculiare e mai generalizzabile dell’interprete. Rifiutata ogni validità scientifica ad ipotesi di una strutturazione dialettica della realtà – secondo un dualismo di piani come essenza/apparenza, illibertà/libertà, corpo/mente, interno/esterno, significato/significante – il postmoderno ha infatti proposto un generale appiattimento fenomenologico dell’esperienza umana, in cui viene meno qualsiasi verticalizzazione gerarchica di senso e di valore, per una attitudine sostanzialmente estetico-contemplativa e non critico-trasformativa dell’accadere. Giacchè ciò che maggiormente conta è il relazionale o anche, come si suole dire, il transindividuale, ossia il dissolvere ogni pretesa di permanenza e di identità, ogni ipotesi di soggettività stabile e continuativa, nella rete di relazioni che invece la sostiene, purchè, a sua volta ogni termine di relazione non pretenda ad una priorità o ad una asimmetria di senso ma si risolva, esso stesso, in una ulteriore apertura e relazionalità all’altro da sé. La “relazione” è la metacategoria, il principio ontologico assoluto, e la sua funzione primaria consiste nel criticare e nel superare qualsiasi concrezione d’identità, qualsiasi costanza e ripetizione: secondo la lezione originaria di quel vero fondatore del postmoderno che è stato F. Nietzsche con la sua esaltazione della vita come configurazione e parallelogramma di forze costantemente cangianti e in lotta fra loro di contro ad ogni falsificazione identitaria di intelletto e ragione. E la teoria dell’infosfera, è appunto l’ultima versione di questa metafisica, che teorizza la connessione generalizzata dell’intero vivente anzi dell’intera realtà materiale e immateriale in una rete di comunicazioni/informazioni che dà alla singolarità solo lo statuto di una formazione transeunte e aleatoria.

Ora solo il marxismo dell’astrazione, a mio avviso, riesce a dar contro di questo superficializzarsi del mondo. Giacchè mette in campo un vettore di realtà, qual è la ricchezza astratta che, nel percorso obbligato della sua valorizzazione, non mette in campo funzioni sociali di esplicito sfruttamento e di dominio che dall’esterno e con violenza opprimino gli individui. Bensì procede secondo un processo più raffinato e complesso per il quale la subordinazione e lo svuotamento sistemico delle vite si mescola e si trasfigura con una scenografia dell’apparire dove compaiono in primo piano frammenti, piani e comparse che, libere da radicamenti, narrano di un mondo discorsivo-comunicativo in cui gli individui s’incontrano e si scontrano attraverso i diritti della democrazia e insieme dello scambio,  l’ermeneutica mai conclusa degli atti linguistici e l’orizzonte di una post-verità che ha cancellato qualsiasi dimensione oggettiva, fattuale e materiale di ciò che precedentemente costituiva verità.

Ed è proprio questo nesso di interiorizzazione /esteriorizzazione, che qui si propone come la nuova configurazione attraverso cui leggere la dialettica sia del Capitale/libro che del Capitale/realtà, che aiuta a far luce su quanto sia accaduto negli ultimi decenni su un piano psico-antropologico alla soggettività umana nella sua relazione con la soggettività del capitale. Perché, quando si esauriscono e vengono sconfitti i movimenti di massa che negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso si erano provati in una critica radicale e in un superamento della società capitalistica si dà luogo a un passaggio storico-sociale che va inteso e compreso assai più nel verso dell’assimilazione e dell’interiorizzazione, messe in atto di dispositivi capitalistici, che non nel verso della repressione (che pure non era mancata). Quello che infatti è accaduto è che, rotta ogni cornice di comunità, ciascuno è stato sollecitato a farsi imprenditore di se stesso. Ciascuno cioè è stato chiamato a farsi capitale umano in una produzione/costruzione di se stesso che ne valorizzasse abilità e competenze da allocare e vendere sul mercato. In una dimensione tutta individuale del successo e della perdita, l’accumulazione di capitale umano ha significato l’accumularsi di titoli di studio e di crediti formativi la cui inconsistenza di contenuto s’è mostrata essere inversamente proporzionale alla continuità e persistenza di quella accumulazione conoscitiva.

Ma dire questo significa verosimilmente abbandonare un marxismo della contraddizione basato sulla valorizzazione di un homo faber, per quanto subalterno ed alienato, comunque soggetto della storia, e praticare un marxismo dell’astrazione capace di coniugare, in modo diverso da quello tradizionale, le categorie strutturanti la tradizione dialettica: come sistema, totalità, essenza/apparenza, profondità/superficie. Un marxismo dell’astrazione cioè che approfondisca la dimensione del capitale come soggetto in grado di una totalizzazione sociale, per la quale è capace di generare, attraverso i suoi medesimi processi di produzione economica e tecnologica, le dissimulazioni rappresentative e ideologiche dei suoi effetti catastrofici di realtà.

 

Note: 

[1] Cfr. su questo tema Giuseppe Longo, Pensare al di là della “epidemia di epidemie”, www.di.ens.fr/users/longo.

[2] Su ciò mi permetto di rinviare ai miei testi, Per un nuovo materialismo. Presupposti antropologici ed etico-politici, Rosenberg & Sellier, Torino, 2018, e Filosofia e tecnologia. Una vita di uscita dalla mente digitale, Rosenberg & Sellier, Torino, 2022.

[3] Cfr. su ciò Giuseppe Longo, Matematica e senso. Per non diventare macchine, Mimesis, Milano-Udine.

[4] Anche per questa interpretazione/rielaborazione dell’opera di Marx rinvio ai miei due testi, Un parracidio mancato. Hegel e il giovane Marx (Boringhieri, Torino 2004) e Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel  (Jaca Book, Milano 2014).

[5] Il riferimento qui è ovviamente al classico di F. Jameson, Postmodernismo: Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, tr. it. di M. Manganelli, Fazi, Roma 2007.

[6] Cfr. K. Marx, Zur Kritik der politischen Oekonomie, Manuskript 1861-1863, MEGA, II, Band 3.1, Akademie Verlag, Berlin, 2013, p. 14.

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Fonte: altraparolarivista.it, 16 Gennaio 2023

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